Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 08:30.
Perché la riforma è difficile
L'accumulo di pronunce giudiziarie lascia intravedere la possibilità che in futuro la Corte Suprema, se il legislatore non si muoverà in modo coerente, possa lanciare un ultimatum, ritenendo quasi insultante una sostanziale inerzia dei legislatori di fronte alla sua disponibilità a dare tempo e rispettare comunque la sfera di autonomia della politica (espressa con il rifiuto, finora, di invalidare formalmente le elezioni). Ma, come sappiamo bene anche in Italia, la riforma elettorale è terreno di scontro tra i partiti, che cercano di introdurre modifiche che potenzialmente li avvantaggino il più possibile ai danni degli schieramenti concorrenti. Il Partito Liberaldemocratico di Abe ottiene più voti dei distretti periferici che nelle metropoli: logico che non abbia fretta e che solo il mese scorso abbia presentato alla discussione tre diverse proposte di riforma.
È anche ovvio che gli eletti nelle circoscrizioni in via di spopolamento invochino un principio di presunto “equilibrio”, sostenendo che una riforma radicale penalizzerebbe aree già di per sé penalizzate, riducendo la loro voce e influenza su scala nazionale. I partiti di opposizione hanno stigmatizzato il fatto che l'amministrazione Abe non abbia ancora cercato di unificare in un disegno di legge proposte largamente condivisibili. Secondo l'analista Robert Feldman di Morgan Stanley MUFG Securities, la situazione è politicamente malsana e contribuisce a frenare le riforme sistemiche che pure sono nel programma di Abe come “terza freccia” dell'Abenomics: “Le città tendono a essere un po' più pro-mercato delle campagne, ma il peso specifico maggiore degli elettori rurali rende più difficile il processo di deregulation nell'economia”.
Democrazia parlamentare
Un sistema elettorale che non rifletta in modo equo i cambiamenti demografici pone a rischio le fondamenta della rappresentanza politica in una democrazia parlamentare. Tanto più che le leggi elettorali, per varie ragioni di opportunità legate per lo più all'esigenza di garantire una certa stabilità governativa, già alterano le proporzioni tra consensi espressi dai cittadini e composizione dell'assemblea parlamentare. Per esempio, in Giappone grazie al sistema misto (per lo più uninominale, con una porzione proporzionale) per le elezioni della Camera Bassa, il partito Liberaldemocratico di Abe ha guadagnato nel 2012 il 79% dei seggi uninominali con il 43% dei voti espressi (da meno del 50% degli aventi diritto di voto, a causa del forte astensionismo).
Per questo il premier giapponese può stare abbastanza tranquillo anche alle imminenti elezioni, da lui convocate a piacimento (è prerogativa dei premier giapponesi, certo invidiatissima da ogni premier italiano, la facoltà esclusiva di sciogliere la Camera Bassa in ogni momento). Può stare tranquillo anche se, nell'ultimo sondaggio della Kyodo, per la prima volta da quando tornò al potere nel dicembre 2012, il tasso di disapprovazione per il premier ha superato quello di approvazione: 47,3% contro 43,6%. E l'84% degli interpellati ha dichiarato di non ritenere che l'economia reale sia davvero migliorata grazie all'Abenomics. Comunque, presso i giapponesi che vanno a votare, è diffusa - come altrove - la sensazione generica che “non ci sia alternativa”. Nello stesso sondaggio, il partito di Abe è saldamente in testa nelle intenzioni di voto:28% contro il 10,3% del principale partito di opposizione (il Democratico). E Abe sta promettendo nuovi ampi stimoli all'economia, dopo aver ammesso, nel primo dibattito televisivo tra leader di partito, che l'Abenomics “è ancora a mezza strada” e i suoi effetti non si sono ancora estesi alle periferie del Paese.
©RIPRODUZIONE RISERVATA