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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2014 alle ore 07:34.
L'ultima modifica è del 04 dicembre 2014 alle ore 08:42.

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NEW YORK - Eric Garner è stato soffocato da un poliziotto. Altrettanto certo è che la presa al collo usata dall'agente, la cosiddetta “chokehold”, è vietata dalle stesse regole della polizia di New York. Il medico legale ha dichiarato la morte un omicidio, dovuta a strangolamento e alla pressione esercitata sul torace. E tutto è stato ripreso da video di passanti, compreso il disperato, inutile ultimo grido di Garner: «Non riesco a respirare». Eppure un Grand Jury ieri sera non ha trovato sufficienti prove, dopo quattro mesi di indagini e testimonianze, per incriminare l'agente bianco Daniel Pantaleo che lo scorso agosto, nel quartiere di Staten Island a New York, ha tolto la vita a un 43enne afroamericano disarmato e sospettato di vendere abusivamente qualche sigaretta. E che a casa ha lasciato moglie e figli.

La reazione al “verdetto”, dopo le tragedie di Ferguson, è stata composta e pacifica. Sit-in di centinaia di persone, dalla stazione ferroviaria di Grand Central a Times Square nel cuore di Manhattan. Ma questa volta alle proteste popolari si sono unite rapidamente le preoccupate prese di posizione di leader politici, che invitando alla calma non hanno nascosto la necessità di agire per superare tensioni imprevedibili e che possono minacciare il tessuto stesso della società americana. Il presidente Barack Obama ha dichiarato che è indispensabile ricostruire un rapporto di fiducia tra forze dell'ordine e minoranze etniche che si sta spezzando, davanti alla lunga storia americana di ingiustizie e alla continua percezione - a volte fondata, ha aggiunto - che non tutti sono uguali davanti alla legge. «Quando qualcuno non è trattato equamente sotto la legge, è un problema ed è mio compito come presidente risolverlo». Il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, ha fatto appello a nuove indagini federali. E gli ha fatto eco il sindaco della città Bill De Blasio, già impegnato in riforme della polizia. Un consigliere comunale afroamericano dopo l'altro ha espresso il proprio shock per la decisione. E in serata il Ministro della Giustizia di Obama, Eric Holder, ha annunciato una nuova indagine che faccia luce sulle violazioni dei diritti civili della vittima.

Ombre di discriminazione, polemiche sull'eccessiva impunità e a volte su una semplice e letale impreparazione e insensibilità della polizia si stanno trasformando in una nuova stagione calda per il Paese. Un'inchiesta del Wall Street Journal ha portato nelle ultime ore alla luce un altro lato oscuro dell'ordine pubblico: centinaia di morti per mano di poliziotti che in cinque anni sono scomparsi nel nulla, senza lasciare traccia nei dati ufficiali e nazionali tenuti dall'Fbi. Analizzando le uccisioni per mano di agenti di un campione di 105 autorità di ordine pubblico e le statistiche nazionali, il Journal ha scoperto una discrepanza di oltre 550 casi su 1.800; vale a dire che il numero delle vittime è stato del 45% superiore a quelle contate. A volte non è neppure chiaro chi abbia ucciso. Peraltro li chiamano, indistintamente, “omicidi giustificati”. E' finita così due anni or sono, per un simile omicidio giustificato e poi evaporato, la vita di Albert Payton nei pressi della capitale Washington DC, dopo che è stato crivellato da 39 proiettili per aver brandito, lui accertato malato di mente, un piccolo coltello d cucina davanti agli agenti. Spesso è ancora una volta la comunità afroamericana a pagare il prezzo più alto di queste morti nascoste.

La sequenza di tragedie degli ultimi mesi ha reso ora inevitabile fare i conti con la crisi. Gli eventi parlano da soli. Tamir Rice aveva dodici anni. Un volto da bambino e una pistola giocattolo in tasca. Poca vita alle spalle e quella poca difficile. È stata stroncata in un attimo, in un parco di Cleveland, Ohio, dalle pallottole di un poliziotto che temeva la pistola fosse vera e che già in passato era stato giudicato instabile. Come in un brutto film, una brusca frenata dell'auto a tagliargli la strada e in due secondi è tutto finito. Nel sangue, ripreso dalle telecamere di sorveglianza, giace il corpo crivellato d'un bambino, al quale per quattro minuti nessuno osa neppure avvicinarsi. Quando gli agenti lo fanno è tardi. Troppo tardi per non diventare una statistica.

Un giovane afroamericano, a conti fatti, ha 21 probabilita più di qualunque coetaneo bianco di essere ucciso dalla polizia. Né ci sono limiti di età. Vedendo il poliziotto saltar giù della vettura e sfoderare la pistola Tamir aveva messo mano alla cintura, probabilmente per far vedere che era solo un giocattolo. Ma gli agenti non perdono tempo a valutare il comportamento d'un ragazzino afroamericano e il loro diventa un gioco di morte.

Le statistiche sulle fatalità, cortesia del Pew Center, formano il muro contro cui si infrangono oggi i dinieghi che qualcosa sia profondamente sbagliato e ingiusto. Ce ne sono altre: la disoccupazione e la povertà che affliggono sproporzionatamente le minoranze etniche, le minori opportunità scolastiche, la discriminazione da parte di una magistratura che rinchiude il 3% degli afroamaricani in prigione contro lo 0,5% dei bianchi. Questa è però la più terribile e rivelatrice.

Rice è stato ucciso solo due giorni prima del verdetto di Ferguson in Missouri, dove un altro agente bianco in agosto aveva ucciso un diciottenne afroamericano disarmato. Disordini e proteste allora, altri disordini e proteste poi. Ferguson piange e brucia, annunciava terso il New York Times. E in uno dei più duri e accorati editoriali sulla crisi razziale denuncia il significato delle parole usate dall'agente Darren Wilson, lo sparatore, al Grand Jury (in maggioranza bianco) per giustificarsi. «Molti agenti vedono gli afroamericani come figure sacrificabili del paesaggio urbano, qualcosa meno che esseri umani - ha stigmatizzato - È un grave pericolo per il tessuto civile degli Stati Uniti».

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