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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2014 alle ore 11:09.
L'ultima modifica è del 27 dicembre 2014 alle ore 11:23.
La guerra tra le fazioni è per il controllo delle risorse energetiche. L'Occidente non ha ancora capito come muoversi. Davanti alla Libia è come se ci fosse da oltre tre anni uno schermo fatto di ipocrisia, indifferenza e proclami velleitari che la rende invisibile alla comunità internazionale. Se dalla sponda Sud nelle ultime 24 ore non fossero arrivati sulle nostre coste oltre 1.200 profughi, salvati dalla Marina Militare, forse si sarebbe persino perduta all'orizzonte la collocazione geografica dell'ex colonia che sta affondando nella guerra civile. C'è da chiedersi se la Libia stessa valga ancora qualche cosa, visto il crollo delle quotazioni del petrolio sui mercati. Non è da escludere neppure questo cinico e miope calcolo di costi e benefici per giustificare un'apparente mancanza di iniziative e di strategia.
Eppure a rendere esplosivo il conflitto libico è proprio questa miscela di interessi energetici e islamismo. L'ultima notizia è che i depositi di carburante di Es Sider, vicino a Ras Lanuf, in Cirenaica, sono in fiamme per gli scontri tra le milizie del governo autoproclamato di Tripoli e quelle del governo “legittimo” di Tobruk. Ma di legittimo in questo Paese non c'è nulla. È in corso una lotta a coltello per il controllo di gas e petrolio e la spartizione di profitti. Il governo di Tobruk, appoggiato dagli stati del Golfo e dall'Egitto, che lo tiene in pugno con le milizie del generale Khalifa Heftar, sta mettendo in piedi un circuito alternativo per gestire i ricavi energetici con lo scopo di tagliare fuori i rivali. L'altro governo, quello di Tripoli, sostenuto dagli islamici di Alba Libica e dalle milizie di Misurata, sta replicando con attacchi ai due grandi porti dell'export, Es Sider e Ras Lanuf, in Cirenaica.
La Libia, dove a Ovest c'è il terminal Eni del gas a Mellita, è diventato ormai un produttore secondario: da 1,6 milioni di barili dei tempi della dittatura la produzione è crollata a 350mila. Non si sa neppure di preciso dove scorre l'oro nero libico, venduto sul mercato anche dagli islamisti di Derna, che hanno dichiarato la loro fedeltà al Califfato. Mentre gli egiziani del generale Al Sisi sostengono il generale Heftar con la speranza di mettere anche loro le mani sulle ricchezze della Cirenaica e collocare la manodopera in eccesso.
La realtà è che questa Libia, sempre più spaccata, rischia di finire vittima degli appetiti interni ed esterni. L'indifferenza internazionale è apparente: intorno all'ex colonia c'è un gran movimento di attori che perseguono interessi propri, non quello della stabilizzazione del Paese. I tunisini, che la loro transizione dalla dittatura di Ben Alì l'hanno appena perfezionata con l'elezione del nuovo presidente, temono la presenza al confine di campi di addestramento dell'organizzazione terroristica Ansar el Sharia mentre nelle scorse settimane sono state segnalati movimenti di forze francesi e africane in avanzata dal Ciad verso il sud della Libia.
Per frenare la disgregazione forse una soluzione è possibile: togliere alle milizie il controllo del petrolio e delle risorse finanziarie. Il problema è come: con un altro intervento internazionale oppure intensificando sforzi diplomatici che l'Onu non riesce a far decollare? La caduta di Gheddafi è stata causata da un intervento militare voluto dai francesi: forse aspetteremo ancora una volta l'iniziativa di Parigi per fare ordine, o disordine, nel cortile di casa.
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