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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2015 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 05 gennaio 2015 alle ore 16:08.
Chi farà la prima mossa? Chi tra le grandi banche centrali avrà il fegato di alzare per prima il costo del denaro in un mondo di tassi a zero? Tolte per ovvie ragioni la Banca Centrale Europea e la Bank of Japan, entrambe alle prese con recessioni o Pil modello prefisso telefonico, nonché rischi di deflazione, restano le due big anglosassoni: la Federal Reserve e la Bank of England. Dopo anni di politica monetaria espansiva, entrambi i Paesi sono riusciti a far ripartire le rispettive economie: del 5% gli Stati Uniti, del 2,6% la Gran Bretagna. Anche se l'inflazione resta ben lontana, nel caso degli Usa, dall'obiettivo del 2%: dovrebbe infatti chiudere l'anno all’1,3%, trascinata verso il basso dal crollo del prezzo del greggio. Mentre nel Regno Unito viaggia intorno al punto percentuale.
Londra attenta a economia ed elezioni
Ma chi muoverà per primo? Fino a qualche mese fa non ci sarebbero stati dubbi. A giugno, al consueto discorso a Mansion House, il governatore della Banca d'Inghilterra aveva dichiarato che il primo aumento di tassi «potrà arrivare prima che i mercati se lo aspettino», provocando l'immediato rafforzamento della sterlina. Ma da allora molte cose sono cambiate per il Regno. Da luglio la sterlina ha invertito la rotta indebolendosi contro il dollaro e l’euro, mentre la produzione del manifatturiero a sorpresa è rallentata. L'export resta debole, anche per lo stato catatonico dell'Eurozona, e tutto ciò contribuisce a togliere pressione sulla Banca d'Inghilterra. Poi non va dimenticato che in maggio i sudditi del Regno andranno alle urne, con l'incubo dell'euroscettico Nigel Farage. Meglio presentarsi al voto con una situazione economica stabile e i mercati distesi.
La lunga marcia della Fed
Diversa la situazione oltreoceano. Lenta ma inesorabile, la Fed sta replicando lo schema già andato in scena 11 anni fa. La sequenza delle modifiche della guidance, come nota il gestore indipendente Francesco Paglianisi, partì nel gennaio 2004 con l'eliminazione del riferimento a tassi fermi per un «periodo considerevole» e venne sostituito, come nella fase attuale, da una Fed «paziente». Nel maggio 2004 venne eliminato il riferimento alla pazienza e nel giugno 2004 ci fu il primo rialzo. Se verranno rispettati i tempi del 2004 avremo il primo step di uno 0,25% nel giugno 2015. Il tutto con prudenza e gradualità, attenti a non far innervosire i mercati.
Ma cosa accadrà alle Borse?
Niente paura. Dal 1971 in poi ai rialzi dei Fed Funds non sono corrisposti crolli dell'indice S&P500 di Wall Street. Al contrario. «Le preoccupazioni sull'addio a una politica monetaria accomodante sono fuori luogo ed esagerate», spiega Noah Weinsenberg di Goldman Sachs. «Anche se la natura di questo ciclo, l'attuale politica monetaria e la pletora di strumenti usati sono diversi dal passato, e quindi le comparazioni vanno prese almeno in parte con le molle».
Cosa insegna la storia
Le turbolenze dovrebbero restare limitate.«I casi del 1988 e del 2005 ne sono un chiaro esempio - spiega Vincenzo Longo, strategist di IG - . In questi due momenti, il contesto storico ha prevalso: i mercati stavano recuperando in fretta dopo i crash che avevano anticipato quei rialzi (ottobre 1987 e bolla del 2000). Diversa la situazione del 1994, dove il rialzo dei tassi di interesse ha tenuto ingabbiato l'S&P500 in una fase laterale, salvo poi accelerare nel 1995, quando la Fed aveva fatto capire che i tassi non avrebbero superato il 6%».
Se Janet non ha la mano pesante
A Wall Street non sono attesi scossoni, insomma, ma solo una leggera correzione. Sempre che la Fed guidata da Janet Yellen non usi la mano pesante. «Tutto dipende dalla rapidità con cui i tassi americani verranno alzati», spiega Stefano Mach, gestore Azimut. «Se dovesse trattarsi di un aumento lento e progressivo, con un innalzamento del rendimento del decennale nel ordine di 50-70 centesimi nei prossimi 12-18 mesi, non prevediamo un particolare impatto negativo sull'azionario Usa. Se invece il rialzo dei rendimenti fosse più rapido e violento, diciamo nell'ordine dell’1-1,5% nello stesso periodo di tempo , allora potrebbe verificarsi qualche turbolenza». Ma la cautela mostrata dalla Fed nelle scelte di politica monetaria fa propendere gli analisti per un rialzo molto graduale.
Le vecchie grane del Vecchio Continente
E l'Europa? Anzi, l'Italia? Con i tassi Bce sottoterra, e la scommessa dei mercati sul quantitative easing di Draghi, il rumore delle mosse Fed arriverà nel Vecchio Continente debitamente attutito. A fare traballare i mercati, casomai, saranno due appuntamenti molto più vicini nel tempo: il 22 gennaio la Bce con il suo “allentamento quantitativo”, il 25 gennaio il voto in Grecia. Se Draghi non riuscisse a essere abbastanza convincente o Tsipras riuscisse a esserlo troppo (nel senso di stravincere le elezioni greche), le Borse europee rischiano di tornare in piena turbolenza. In particolare quelle del “Club Med”, le più esposte ai capricci dei listini. Meglio allacciare le cinture di sicurezza.
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