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Putin, Erdogan e la deriva autoritaria che turba l’Europa

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Putin, Erdogan e la deriva autoritaria che turba l’Europa

  • –di Albero Negri

I due campioni europei dell’autoritarismo, Putin ed Erdogan, all’inizio di dicembre si sono fatti gli auguri di buon anno in anticipo con la visita del leader russo ad Ankara in cui ha annunciato la fine del progetto South Stream e una nuova pipeline turco-russa. L’obiettivo è arrivare in cinque anni a un interscambio bilaterale di 100 miliardi di dollari: Mosca ha bisogno di Ankara e la Turchia punta a diventare un hub energetico. Benché assai lontani dall’Unione per motivi completamente diversi ma convergenti questa coppia turba le visioni democratiche dei sonnambuli europei.

L’intesa tra Russia e Turchia, in apparenza, somiglia a certe sante alleanze ottocentesche che sembravano forgiate con l’acciaio ed erano poi destinate a liquefarsi quando interessi opposti mettevano gli Imperi di allora - zarista, ottomano, austro-ungarico, britannico, francese - in rotta di collisione. Era questa l’Età degli Imperi che con le sue rivalità ha fatto (e disfatto) l’Europa e il Medio Oriente.

Putin ed Erdogan in teoria dovrebbero essere avversari non alleati. Il presidente turco, che si sente l’erede degli ottomani, sa perfettamente che Zar e Sultani si sono combattuti per secoli, mentre ai tempi della guerra fredda proprio la Turchia rappresentava il baluardo della Nato sul fianco sud-orientale, a stretto contatto con quelle repubbliche sovietiche di Armenia e Azerbaijan che restano in guerra per il Nagorno-Karabakh. I russi con i loro generali sostengono Erevan, i turchi Baku che ha lanciato le sue pipeline verso l’Europa attraverso i terminali turchi.

Ecco un primo motivo di contrasto che dura da molti anni cui si è aggiunta la Crimea, antica terra di frontiera tra ottomani e zaristi, dove l’annessione di Mosca ha messo all’angolo la minoranza musulmana dei tatari, dei quali Erdogan si erge a protettore, almeno a parole.

Ma è sulla Siria che i due sono sul piede di guerra. Putin ed Erdogan qui si stanno facendo da quattro anni una guerra per procura. Mosca, con l’Iran, è il maggiore sponsor di Bashar Assad, e tiene ancora in vita il capo degli alauiti. Lo fa per motivi storici ma anche perché la Siria assicura ai russi la base mediteranea di Tartous e un ruolo nella futura sistemazione delle frontiere del Medio Oriente, che con il negoziato nucleare iraniano sarà il Grande Gioco della politica internazionale del 2015 e della finora stentata lotta della coalizione americana al Califfato.

Già circolano le mappe della Cia che prevedono una divisione in tre parti della Siria (Aleppo a Nord, Assad a Damasco e sulla costa alauita, l’Est in mano a un nuovo fantomatico stato cuscinetto sunnita), con la presenza un New Army siriano addestrato da turchi e americani nella regione di Aleppo e curda. Per questo tutti i contingenti europei prendono posizione a Erbil e oltre a un inviato speciale dell’Onu (Staffan De Mistura) presto potrebbe esserne nominato uno anche dall’Unione (forse pure questo italiano).

Ankara come è noto sta sul fronte opposto a quello russo e ha fatto passare migliaia di jihadisti per combattere il regime di Damasco.

Per Erdogan la Siria, insieme alla caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto esautorati dal colpo di stato del generale Al Sisi, è stata una delusion cocente. Aveva puntato su Bashar, aprendo le frontiere e gli scambi, lo aveva difeso contro Israele, e poi Assad lo ha respinto non seguendo i suoi consigli. Erdogan all’inizio non voleva la caduta di Assad ma pretendeva che ricorresse subito alle urne per diventare come lui un presidente autoritario ma legittimato dal voto popolare: «Non dirmi che non sei in grado di pilotare le elezioni come vuoi», gli disse Erdogan nel 2011 in una concitata telefonata.

Eppure, nonostante tutti questi motivi di contrasto, Putin ed Erdogan si stringono la mano convinti di avere molto in comune, oltre alle tendenze autoritarie, all’inclinazione a far fuori gli oppositori e mettere il bavaglio alla stampa.

Entrambi sono trascinati a Oriente dalla geopolitica e dall’economia. Putin, con la guerra del petrolio e le sanzioni per l’Ucraina, è in piena crisi e deve trovare a Est le alleanze per costituire con i Paesi asiatici una sorta di Bretton Woods orientale. Erdogan sa benissimo che resterà ancora a lungo fuori dall’Europa, non tanto per motivi economici ma per gli standard politici, e quest’anno la Turchia come Paese leader del G-20 tenterà di parare il colpo di essere esclusa dai Trattati di partnership transatlantica.

Anche l’Italia, sia pure ai margini, ha un suo ruolo: è un partner della Turchia e dei russi. Vorremmo vendere i missili ad Ankara e gli elicotteri dell'Agusta che produciamo in Turchia in giro per il mondo, continuando a fare affari con Mosca: ma gli Stati Unti ci hanno già lanciato qualche non troppo velato avvertimento dopo i nostri tour diplomatici in Russia e ad Ankara. «L’Europa resta un continente sotto tutela», commentava in questi giorni uno dei capi della nostra diplomazia alludendo alle nostre amate sponde.

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STRANI ALLEATI

Putin ad Ankara

Nonostante profonde rivalità, Russia e Turchia cercano di attivare forme di cooperazione economica.
All’inizio di dicembre, Putin ha incontrato Erdogan ad Ankara (nella foto), dove ha annunciato la fine di South Stream e la nuova pipeline turco-russa.

La partita dell’energia

L’obiettivo dei due governi è portare l’interscambio commerciale a 100 miliardi di dollari.

La Russia ha bisogno di nuovi partner per le tensioni che la allontanano dall’Europa. La Turchia vuole diventare un hub energetico.