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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2015 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 12 gennaio 2015 alle ore 10:41.
La prima vittima del petrolio sottocosto si chiama WbhEnergy: è una piccola compagnia texana, con sede ad Austin, che qualche giorno fa ha chiesto la protezione della legge sui fallimenti. «Il gruppo non poteva reggere questo declino dei prezzi», spiega Daniel Katzenberg, analista a Robert W. Baird & Co. Potrebbe essere solo l'inizio per la fetta più fragile del settore shale oil, indebitato e ora in difficoltà per il crollo rovinoso del prezzo del greggio, che ha portato a una stretta sui crediti con un'impennata dei tassi d'interesse.
Esistono infatti almeno una dozzina di società di estrazione letteralmente coperte di debiti (secondo Bloomberg alcuni mesi fa spendevano il 10% del fatturato solo per pagare i creditori) ma affamate di denaro in prestito, che stanno pericolosamente traballando assieme alle loro obbligazioni classificate “junk”, spazzatura, dalle agenzie di rating. In generale, l’intero settore “shale” è assetato di fondi: dal 2010 i debiti sono aumentati del 55% ad almeno quota 200 miliardi di dollari. Accanto alle società fragili ce ne sono però altre in salute, che potrebbero tranquillamente reggere anche se il barile continuasse a scendere.
Sì perché, come ha spiegato di recente Leonardo Maugeri sul Sole 24 Ore, la produttività e i costi dello shale oil (e dello shale gas) oscillano in modo spaventoso anche all'interno di uno stesso giacimento. Per esempio la contea McKenzie, l'area più produttiva del giacimento di Bakken-Three Forks nel Nord Dakota, in agosto aveva un break-even di 28 dollari a barile, mentre la contea di Divide (sempre nella formazione Bakken) nello stesso mese aveva un break-even quasi quadruplo, a 85 dollari. Enormi variazioni che dipendono dalla geologia, dalla tecnica estrattiva, dalla qualità delle società di estrazione e così via. Il che porta ad altri apparenti paradossi: per esempio il fatto che, nonostante il prezzo del barile sia più che dimezzato, la produzione di shale oil negli States continua ad aumentare. Dall'inizio della caduta, a giugno, è cresciuta di 400mila barili al giorno, in sostanza perché lo sfruttamento è sempre più “intensivo”.
La texana Wbh Energy insomma rischia di non essere l'unica a finire a gambe all'aria. E le scosse telluriche provenienti dal settore energetico non passeranno inosservate a Wall Street. «La shale industry – osserva Giuseppe Sersale, strategist di Anthilia - ha rappresentato quasi il 40% degli investimenti totali, e l'impatto di uno stop si sentirà. Il 16% del mercato high yield Usa è composto di emittenti del settore energy e quindi eventuale stress potrebbe riverberare sull'intero comparto, causando volatilità anche su altre asset class». Inoltre il calo degli utili del settore si farà sentire sull’azionario delle società energetiche. Il contraccolpo del barile sottocosto dovrebbe invece essere molto limitato per l'economia americana, che in generale da un petrolio a buon mercato ottiene indiscussi vantaggi.
In ogni caso, il greggio sotto i 40 dollari non durerà in eterno. Attenzione però: non tornerà nemmeno a svettare sopra 100 dollari. Troppa offerta, troppa poca domanda. Il mondo è cambiato, e anche per l'oil è arrivata l’epoca di una “nuova normalità” che sa tanto di fusioni e acquisizioni a raffica.
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