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Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2015 alle ore 21:11.
L'ultima modifica è del 10 gennaio 2015 alle ore 14:28.

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PARIGI - Chérif Kouachi, il più giovane dei due fratelli autori della strage di Charlie Hebdo, appare nei radar dell'antiterrorismo nel 2003. Fino ad allora era noto alla polizia come un piccolo delinquente, coinvolto in alcuni furti e nello spaccio di droga, un profilo comune a moltissimi giovani dei casermoni popolari di Gennevilliers, alla periferia Nord di Parigi, quasi sempre figli di immigrati maghrebini.

Nel 2003, a 21 anni, Chérif inizia a frequentare la moschea Adda'wa del quartiere parigino Stalingrad. Dove viene rapidamente indrottinato e convertito al radicalismo islamico da un imam autonominato, Farid Benyettou. Quest'ultimo è il principale animatore della cosiddetta “filiera del 19°”, cioè l'organizzazione di reclutamento di giovani da inviare a combattere nelle fila di al-Qaeda in Iraq che opera nel diciannovesimo arrondissement della capitale, dove c'è il parco delle Buttes Chaumont. Il cui bilancio è particolarmente allarmante: una cinquantina di giovani reclutati, tre jhiadisti morti nel 2004 in Iraq, due detenuti negli Stati Uniti, uno in Siria.

Proprio nell'ambito dell'inchiesta su questa filiera, Chérif (che ormai si fa chiamare Abou Issen) viene arrestato nel 2005 e passerà due anni di detenzione preventiva, in attesa di processo, nel carcere di Fleury-Mérogis. Lì incontra il suo nuovo “maestro”, l'estremista Djamel Beghal (Abou Hamza), che sta scontando una pena di dieci anni per aver progettato un attentato, nel 2001, contro l'ambasciata americana a Parigi. E quando esce è più convinto che mai della bontà della guerra santa armata. Niente di strano: la prigione è il luogo ideale del proselitismo islamico.

Nel 2008 viene condannato a tre anni ma non rientra in carcere perché ha già scontato i 18 mesi “obbligatori”. Due anni dopo, nel maggio del 2010, viene nuovamente arrestato perché è sospettato di aver partecipato al progetto di evasione di Amain Ait Ali Belkacem, terrorista algerino condannato all'ergastolo per l'attentato dell'ottobre 1995 alla stazione Museo d'Orsay della linea ferroviaria regionale Rer che ha fatto 30 feriti. Per tre giorni viene interrogato undici volte, ma gli inquirenti si trovano di fronte a un muro: nessuna risposta, silenzio totale. Verrà prosciolto per assenza di prove, anche se i magistrati sottolineano «il suo islamismo radicale evidente».

Il suo nome riappare poco dopo nell'ambito delle indagini sull'uccisione di due politici tunisini, per la quale viene arrestato e condannato Boubaker Al-Hakim (Abou Mouqatel), amico di Chérif e cofondatore della “filiera del 19°”. Terrorista “tra i più pericolosi”, secondo il ministero dell'Interno di Tunisi.

Il fratello di Chérif, Said, non ha precedenti penali, ma anche lui non è certo uno sconosciuto ai servizi di intelligence. Si è recato nello Yemen più volte, tra il 2009 e il 2013. Prima come studente dell'Università al-Imane di Sana'a, diretta dal predicatore fondamentalista Abdel Majid al-Zindani, e poi per partecipare ai campi di addestramento di Aqpa, al-Qaeda nella Penisola arabica, dove ha imparato a maneggiare le armi. Va ricordato che in testa alla lista di Aqpa degli obiettivi da colpire c'era proprio Charlie Hebdo. Sul giornale in inglese del gruppo terrorista, Inspire, sono stati pubblicati ripetutamente inviti ai “lupi solitari” a colpire i Paesi occidentali, in particolare la Francia. Il direttore del settimanale satirico francese, Charb, era sulla lista delle persone da uccidere.

Ci sono infine delle evidenti connessioni tra i fratelli Kouachi (da tempo sulla no fly list americana, la lista nera dei terroristi che non possono volare su aerei americani ed entrare negli Stati Uniti) e Amedy Coulibaly, il terzo uomo che è entrato in azione giovedì mattina, meno di 24 ore dopo il massacro di Charlie Hebdo, a Montrouge, a Sud di Parigi, dove ha ucciso a sangue freddo un vigile urbano, una donna di 25 anni, e ne ha ferito un altro.

Riuscendo poi a fuggire per ricomparire ieri pomeriggio nella zona della Porte de Vincennes, dove ha preso in ostaggio alcune persone in un supermercato alimentare ebraico. Al di là dei tanti precedenti penali per spaccio di droga e violenze di vario genere, Coulibaly faceva parte anche lui della “filiera del 19°”, frequentava Beghal e nel dicembre del 2013 è stato condannato a cinque anni per la partecipazione proprio al progetto di evasione di Belkacem. Era in libertà da due mesi.

Ce n'è quanto basta perché ci si chieda com'è possibile che questi personaggi non fossero sottoposti a un rigido controllo e abbiano potuto seminare la morte a Parigi. Perché ci si interroghi sulle carenze dei servizi di intelligence francesi. E perché il premier Manuel Valls riconosca che «è senza dubbio necessario dotarsi di nuove misure per rispondere alla minaccia terrorista, per combattere non solo i nemici esterni ma anche quelli che abbiamo in casa».

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