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Dal Mali all’Indonesia, ecco la mappa del terrore globale

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ATTACCO ALLA FRANCIA

Dal Mali all’Indonesia, ecco la mappa del terrore globale

La storia non finisce con il duplice dramma nella campagna francese e nel cuore di Parigi. Siamo entrati in un'epoca che richiede una mappa diversa dal passato. Dimentichiamo anche la vecchia carta geografica perché in questi anni la Jihad ne ha disegnata un'altra, dal Medio Oriente alla penisola Arabica, dal Mediterraneo all'Africa.

È attraversando queste nuove frontiere, mobili e incerte, dove sono stati inghiottiti i confini degli stati dei vecchi raìs sostituiti da nuovi padroni, poteri e persino da una nuova economia, che hanno raggiunto i campi di addestramento in Siria e Yemen i fratelli franco-algerini Kouachi e viaggiano ogni giorno i combattenti della Guerra Santa.
L'Europa confina con un Nuovo Mondo che sfugge al suo controllo, ampie aree grigie conquistate o sotto l'influenza di gruppi terroristi. “Hic sunt leones”, era inciso sulle antiche carte per indicare i territori sconosciuti.

Il Califfato, che da Mosul rivendica la responsabilità del massacro a Charlie Hebdo, comincia a 500 metri dalla frontiera turca, a contatto di gomito con la Nato, da oltre 50 anni “ombrello” militare, o paravento, di Ankara. Nel cielo sopra Kobane, città curda assediata dai jihadisti dell'Isil, sorvolano gli aerei della coalizione internazionale anti-Califfato guidata dagli Stati Uniti ma a terra sono gli islamisti che tengono sotto controllo la frontiera.

E dall'altra parte dell'ex Siria, non c'è soltanto lo Stato Islamico del Califfo Abu Bakr Baghdadi che in Mesopotamia “governa” su un territorio vasto come la Gran Bretagna, scontrandosi con le truppe di due stati, i loro alleati e persino con le guardie di frontiera dell'Arabia Saudita. Sui valichi della Siria sventolano bandiere diverse, da quella dell'Isil al vessillo dell'Els, l'Esercito libero siriano sostenuto dalla Turchia, e di Jabat al Nusra, gruppo integralista legato ad Al Qaeda e al Qatar.

Lungo questa frontiera turco-siriana, che si snoda per 911 chilometri, l'Occidente non solo non può controllare i suoi nemici ma neppure gli alleati. Nonostante Ankara affermi di non armare i ribelli siriani, i combattenti jihadisti sostengono di ricevere finanziamenti da ricchi siriani o arabi delle petromonarchie del Golfo con la complicità turca. La guerra ha sconvolto ma non estinto il commercio con la Turchia. Sono cambiati gli attori e le merci. Durante i tre interminabili anni di conflitto contro il regime di Bashar Assad che hanno divorato la Siria con 200mila morti, i posti di blocco sono stati tunnel naturali per l'entrata di armi e combattenti stranieri che si sono uniti ai gruppi jihadisti. Tra un combattente del Califfato o delle altre decine di gruppi islamici non si fa differenza. Paghi, entri ed esci dalla Turchia: 25 dollari per corrompere un doganiere.

E poi c'è il traffico di carburanti e petrolio che scorre in una rete di tubi sotterranei. Ai militanti siriani frutta almeno un milione e mezzo di dollari al giorno. Il governo turco quest'estate ha distrutto 320 oleodotti artigianali. I trafficanti lavorano con tutti, anche con l'Isil che vende un barile di petrolio, trasportato da Mosul, a un prezzo scontato del 75 per cento sulle quotazioni di mercato. Il crollo dei prezzi per la sovraproduzione saudita è stato incassato male dal Califfato che forse non a caso negli ultimi tempi ha perso qualche battaglia.

Dimentichiamo dunque il vecchio Medio Oriente, con sceicchi o raìs che l'Occidente poteva “noleggiare” al servizio dei suoi interessi, ma anche il Grande Medio Oriente evocato da Bush jiunior per descrivere il campo di battaglia della “guerra al terrorismo”. Siamo di fronte a territori indefiniti tra Nordafrica e Asia centrale che non costituiscono più un insieme, ammesso che lo siano mai stati.

Basti pensare allo Yemen e alla Somalia, due entità separate dallo Stretto di Bab el Mandeb ma che formano quasi un “mercato comune” del terrorismo. Nel primo è attiva Al Qaeda nella Penisola Arabica, organizzazione che compie attentati, attacca ambasciate straniere e che aveva trovato un capo carismatico in Anwar Al Awlaki, predicatore americano ucciso nel 2011 da un drone Usa: secondo fonti di Washington aveva incontrato anche Said Kouachi, il maggiore dei due fratelli del massacro di Parigi. Mentre dall'altra parte dello Stretto ci sono gli Al Shabab, i radicali islamici costretti a lasciare Mogadiscio ma capaci di organizzare attacchi come quello del 2013 a un centro di commerciale a Nairobi con dozzine di morti. Yemen e Somalia sono due stati “falliti” le cui frontiere sono un ricordo ingiallito sulla mappa.

A questa coppia si sta per aggiungere la Libia, travolta dallo scontro per la spartizione del petrolio, spaccata tra un governo di Tripoli, dominato da forze islamiste e dalle milizie di Misurata, e uno “legittimo” con sede a Tobruk ma in realtà ostaggio del generale Khalifa Heftar in lotta con le brigate integraliste di Ansar el Sharia e altre formazioni jihadiste di Derna e Bengasi fedeli al Califfato. Un disastro _ paragonabile a quello iracheno nel 2003 _ seguito alla caduta di Gheddafi per mano anche di europei e americani e che ora nessuno è in grado di affrontare: la nostra sponda Sud è totalmente fuori controllo.

L'effetto del caos libico è stato quello di rinvigorire la presenza di Al Qaeda nel Maghreb che dopo la guerra in Mali continua comunque a tenere in scacco il Sud dell'Algeria, parti della Mauritania e del Niger. Possiamo soltanto immaginare quale futuro aspetta l'Africa se si verificasse una saldatura di questi gruppi islamici con i Boko Haram della Nigeria, il Califfato Nero che sta sterminando con migliaia di morti le popolazioni al confine con il Lago Chad, sgominando l'esercito di un Paese considerato per abitanti e risorse petrolifere il colosso del continente. Ma questo è il Nuovo Mondo che oggi mette alla prova l'Europa e la tiene nel mirino.

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