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Libia, attacco al campo petrolifero di Total

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Medio Oriente

Libia, attacco al campo petrolifero di Total

UN PAESE SPACCATO

Da un lato il governo di Tobruk

riconosciuto dalla comunità

internazionale, dall’altro

quello della capitale, in mano alle milizie islamiche

La Libia spofonda nel caos, petrolio compreso, anche quei preziosi barili che la Francia dell’ex presidente Nicolas Sarkozy pensava di mettere al sicuro, e forse moltiplicare, con i raid aerei lanciati nel 2011 durante la rivolta di Bengasi per abbattere il regime del Colonnello Gheddafi. Miliziani di un gruppo jihadista affiliato al Califfato hanno attaccato ieri il campo petrolifero della Total a Mabruk, a sud di Sirte. Almeno tre i morti e diverse le guardie rapite. È stata però smentitita però la notizia_ diffusa inizialmente dalle forze armate libiche_ che un dipendente francese della Total fosse tra i sequestrati. L’assalto, secondo le fonti libiche, è stato compiuto da miliziani appartenenti ad Ansar al Sharia _ un’organizzazione alleata dello Stato islamico in guerra in Cirenaica contro l’esercito del generale Khalifa Heftar _ che hanno attaccato un giacimento petrolifero gestito dal gruppo francese Total e dalla Noc (la National Oil Corp libica) nell’area petrolifera di al-Mabruk, a circa 170 chilometri a sud di Sirte.

La zona era già stata evacuata nel dicembre scorso quando il terminale petrolifero Es Sider venne chiuso per i frequenti scontri tra gruppi armati che si stanno disputando le ricchezze energetiche del Paese. Sirte, un tempo roccaforte di Gheddafi, è un territorio controllato dal gruppo Ansar al Sharia e nella regione sono frequenti i combattimenti per il controllo dei porti petroliferi Es Sider e Ras Lanuf, ai confini con la Cirenaica.

Un tempo la Libia era una cassaforte dell’energia, soprattutto per l’Italia cui è legata anche dal gasdotto Green Stream, ma a causa degli scontri tra le fazioni la produzione libica petrolifera è scesa a circa 350 mila barili al giorno, un calo drastico rispetto al tetto di 1,6 milioni di barili prodotti durante il regime del Colonnello.

Ma questo è soltanto aspetto del caos libico: di fatto il Paese è spaccato tra la Tripolitania e la Cirenaica, tra il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale ma assolutamente inefficace, e quello della capitale dove è in mano alle milizie islamiche.

Ma nessuno ha davvero il controllo della situazione, neppure a livello locale, e i gruppi affiliati al Califfato guadagnano terreno giorno dopo giorno. Alle faide tra milizie si sono coì aggiunti i cartelli del Jihad che hanno rivendicato l’attentato del 27 gennaio al Corinthia Hotel di Tripoli dove si è fatto saltare un commando kamikaze.

Rivendicato dal Califfato di Derna, l’attacco sul lungomare di Tripoli, quasi alle porte di casa, non è stata purtroppo una sorpresa inaspettata. Mentre a Kobane i curdi sono riusciti a liberarsi del Califfato, a Derna sono arrivati i luogotenenti di Abu Bakr Baghadi accompagnati dai reduci della guerra in Siria e in Iraq che avevamo già visto partire per le coste turche nel 2011. In Turchia sbarcarono allora cinquemila turbolenti volontari libici per partecipare alla guerra contro il regime di Bashar Assad. In quelle settimane Erdogan, Sarkozy e Cameron andavano a raccogliere l’applauso scrosciante dei thuwar, i rivoluzionari di Bengasi, mentre si preparavano le premesse per il disastro di oggi.

Il ministro italiano degli Esteri Gentiloni ha appena ricevuto alla Farnesina il collega libico Mohamed al-Dairy e in questa occasione ha auspicato che «tutte le parti partecipino al dialogo politico dell’Onu». Ma gli appelli dovrebbero essere rivolti anche a chi, dopo i raid del 2011, ha abbandonato la Libia al suo destino in una transizione impossibile, lasciando un Paese spaccato dove non solo non c’era nessuna tradizione democratica ma anche lo Stato, nozione per altro assai labile, era già affondato nella polvere insieme al Raìs.

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