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POLITICA 2.0 - ECONOMIA & SOCIETÀ

La fretta di Renzi, i duelli della minoranza Pd e il rischio di un «nulla di fatto»

Serviva Giorgio Napolitano a ricordare il rischio di un nuovo “imperdonabile nulla di fatto”. Finora la riforma del Senato è stata declinata secondo le logiche di una battaglia politica, tutta dentro il Pd, tra renziani e anti-renziani. Ma ieri è stato l’ex capo dello Stato a ricordare cosa c’è in ballo: l’ennesimo fallimento.
E infatti la vera domanda di questo scontro è cosa si rischia. Perché oggi, alla terza lettura, rimettere in discussione punti determinanti della riforma vuol dire, praticamente, tornare al punto di partenza. “Disfare la tela”, come diceva nel suo intervento al Senato Giorgio Napolitano. E allora la minoranza del Pd, che si fa portatrice di questa battaglia parlamentare, deve chiarire quali sono - oltre i benefici delle sue proposte emendative - anche gli effetti collaterali: ossia l’ennesimo nulla di fatto. E il mantenimento dell’attuale bicameralismo paritario che – invece - è sempre stata una delle riforme più gettonate e onnipresenti in tutti i programmi di centrosinistra.
Forse in questa chiave l’ex capo dello Stato parla di «senso del limite», cioè quella tendenza ad alzare l’asticella delle legittime rivendicazioni politiche fino al punto dell’inconcludenza. E trasformare, così, anche questa legislatura, dal punto di vista dell’ammodernamento dell’assetto istituzionale, in un ennesimo buco nell’acqua.

In effetti, in questi anni di grandi discussioni su legge elettorale e riforma costituzionale, il fine ultimo che ha animato molti leader è stato il mantenimento dello status quo. Il Porcellum e l’attuale bicameralismo sono stati un comodo habitat politico di cui nessuno si è voluto disfare tante erano le convenienze, pur nell’inefficienza del governare. Un problema che è sempre stato secondario rispetto ai vantaggi per i partiti e per le segreterie che hanno potuto infarcire i gruppi parlamentari di loro fedelissimi sfidando ogni volta il rischio che poi si è concretizzato nel 2013. Ossia, un cortocircuito istituzionale che dopo il voto non ha prodotto maggioranza, non ha prodotto un Governo e neppure un presidente della Repubblica. Se lo ricorda bene l’ex capo dello Stato che accettò la sua rielezione, un inedito della storia repubblicana fino a quel momento. Bene, questo era il rischio dello status quo, sfidato ogni volta fino a quando qualcuno ne ha pagato il prezzo politico: Bersani e tutto il Pd.
Oggi i costi di un nulla di fatto sono intatti. Siamo ugualmente in presenza dell’impasse istituzionale visto che la nuova legge elettorale non può funzionare se non con un Senato riformato. E se non si sblocca la partita del bicameralismo paritario è come se questi anni di discussioni parlamentari - e lacerazioni dentro il Pd - non fossero serviti a nulla.

E non è solo una questione di tempi, secondo l’impostazione renziana, è una questione di essere concludenti o meno. A oggi è davvero difficile immaginare che la tabella di marcia del premier sia realistica: servirebbe terminare la terza lettura entro metà settembre e concludere tutto entro Natale per poter fare il referendum a metà giugno con le comunali. Uno sprint che alcuni, al Senato, giudicano un azzardo. Ma il vero azzardo è che la fretta o la voglia della minoranza Pd di duellare all’infinito con Renzi porti a un nuovo nulla di fatto. Con annessa corsa ad addebitare le responsabilità all’avversario, come è successo con il Porcellum mille volte. Fino a quando arriva il conto e qualcuno il prezzo politico lo paga, come è accaduto alle elezioni del 2013. E non è detto che sarà Renzi.