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I settori: «Danni enormi per il made in Italy»

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I settori: «Danni enormi per il made in Italy»

Se la “diga” antidumping dovesse cedere, il costo dell’alluvione sarebbe, oggi, troppo salato. Tra 200mila (nell’ipotesi “migliore”) e 400mila (in quella peggiore) i posti di lavoro che potrebbero andare in fumo solo in Italia.

A snocciolare le proiezioni è uno studio realizzato dall’istituto di ricerca americano non profit Epi (Economic Policy Institute) sui probabili effetti che il riconoscimento alla Cina dello status di “economia di mercato” avrebbe sul Pil e i posti di lavoro in Europa. E a farne maggiormente le spese – nella classifica dei Paesi europei – sarebbero soprattutto le due principali manifatture: la Germania (da 320mila a 640mila posti di lavoro a rischio) e l’Italia (da 208mila a 416mila posti in pericolo).

Se, dunque, venisse meno tutto l’attuale e complesso sistema di dazi e clausole contro la concorrenza sleale, passando al setaccio i settori più a rischio – questa volta su un perimetro europeo – a rimetterci sarebbero soprattutto la filiera del tessile (abbigliamento ma anche calzature e accessori) con una “forchetta” di posti a rischio tra 187mila e 374mila, i computer e l’elettronica (tra 92.500 e 287mila), l’arredo (tra 92.500 e 185mila) e la siderurgia (tra 60mila e 117mila quelli nel mirino).

In Italia, nella migliore delle ipotesi, potrebbero saltare oltre 35mila posti di lavoro nel tessile/calzature, 12.500 nell’elettronica, 12.600 nell’arredo. E oltre 94mila potrebbero essere i costi indiretti a saltare nei servizi.

«Il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina – ha sottolineato Annarita Pilotti, presidente di Assocalzaturifici – renderebbe molto più difficile per la Ue difendere la propria capacità industriale. Le eventuali condizioni distorsive sul mercato comunitario porterebbero quindi danni enormi al calzaturiero italiano, mettendo a rischio, nel settore, circa 20mila posti di lavoro».

«Il declino del tessile italiano, 20 anni fa, fu figlio di una concorrenza sleale e dell’assenza di misure antidumping – ha aggiunto Claudio Marenzi (presidente di Sistema Moda Italia) –. Lo status di “economia di mercato” presuppone che un Paese abbia trasparenza nel diritto fallimentare, regole antidiscriminatorie nel societario, si conformi ai principi contabili internazionali Ias/Ifrs. Tutte cose che alla Cina ancora mancano».

Per la ceramica il dazio antidumping è doppio, ha spiegato Alfonso Panzani, vicepresidente dell’associazione che riunisce le industrie ceramiche europee: «Nel 2011 a fronte di un’istruttoria europea sulle vendite, alcune imprese cinesi ammisero le proprie responsabilità, altre no. Alle prime fu imposto un dazio verso l’Europa del 30%, alle seconde del 70. I dazi – quinquennali – scadranno a settembre 2016 e sarebbe grave non poterli riproporre. Da quando ci sono i dazi le vendite di ceramica cinese in Europa sono calate del 65%, passando da 65 milioni di metri quadri a 20-25 milioni».

Anche per Federacciai, l’ipotesi di “promuovere” la Cina allo status di “economia di mercato” non sta in piedi.

«Oggi – ha spiegato Antonio Gozzi, presidente di Federacciai – la siderurgia cinese esporta, in tutto il mondo tra 50 e 80 dollari in perdita per tonnellata, con perdite mensili che si attestano tra 4,5 e 5 miliardi di dollari. E può farlo perchè sussidiata dallo Stato. Già così viene meno uno dei requisiti essenziali di un’economia di mercato. Ma stessa cosa accade nella cantieristica. Molti cantieri cinesi “decotti” non sono stati lasciati fallire per non dover affrontare le tensioni sociali derivanti da un aumento della disoccupazione. Così, nello shipping, si assiste a una sovracapacità di stiva gigantesca causata da navi prodotte sottocosto».

Se dovesse venire meno l’attuale sistema antidumping, ha concluso Gozzi , «davanti a situazioni di palese concorrenza sleale, non ci sarebbero più misure rapide ma lunghe istruttorie che, forse, darebbero vita a contromisure dopo che ormai il danno è stato fatto».

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