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Dollaro sotto pressione, euro sopra 1,16

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Dollaro sotto pressione, euro sopra 1,16

  • –Maximilian Cellino

L’euro fa una rapida puntata oltre 1,16 dollari, là dove non si affacciava dall’agosto dello scorso anno, e poi rientra nei ranghi attorno ai livelli toccati il giorno precedente. Il ripiegamento del pomeriggio, che in genere i trader tendono a legare a una semplice correzione tecnica, non cambia però il tema di fondo sui mercati valutari né soprattutto i rapporti di forza relativa fra le due monete di Stati Uniti ed Eurozona.

Per un euro che sale c’è insomma un dollaro se non proprio in caduta libera, quantomeno in forte ridimensionamento: è il biglietto verde in effetti il vero motore del mercato da diversi mesi a questa parte, prova ne sia che le sue quotazioni sono ai minimi nei confronti dello yen da 18 mesi e dal gennaio 2015 su scala globale (cioè il dollar index). La ragione principale di questo movimento risiede nella delusione per l’andamento di diversi indicatori macroeconomici negli Stati Uniti, fra i quali il deludente Pil del primo trimestre, ma non solo: ieri mattina per esempio anche la frenata degli indici manifatturieri cinesi ha indirettamente messo sotto pressione il dollaro. Fa infatti pensare ai possibili contraccolpi sulla crescita americana e temere un ulteriore allontanamento dei rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve (che poi sono l’elemento primario di sostegno alla valuta).

Il rovescio della medaglia di una debolezza concentrata quasi esclusivamente sul dollaro è che quello stesso euro che si è apprezzato di quasi il 7% da inizio anno nei confronti della valuta Usa ridimensiona il proprio guadagno a poco meno del 3% se si guarda al cambio effettivo che lo mette in confronto al paniere di divise con cui scambia normalmente l’Eurozona. Quest’ultimo valore, in particolare, viaggia ampiamente al di sotto dei livelli raggiunti lo scorso febbraio e soprattutto resta inferiore alle ipotesi sulle quali lo staff della Banca centrale europea (Bce) ha basato le proiezioni economiche diffuse lo scorso marzo, quando si è deciso di tagliare i tassi e ampliare il quantitative easing: anche per tale motivo, probabilmente, i banchieri dell’Eurotower non mostrano il nervosismo per l’andamento del mercato valutario che hanno tradito altre volte in precedenza.

L’altro aspetto rilevante è che i passaggi a vuoto del biglietto verde danno sì sollievo a certi Paesi emergenti fortemente indebitati in valuta estera, rilanciano oro, petrolio e altre materie prime i cui prezzi sono denominati in dollari, ma fanno anche riaffiorare i timori di una guerra delle valute. Non è probabilmente un caso se ieri la Banca centrale australiana ha tagliato a sorpresa i tassi d’interesse di 25 punti base all’1,75% provocando uno scivolone della valuta locale. Sulla carta il governatore della Rba, Glenn Stevens, ha motivato la decisione con il forte calo dell’inflazione nel primo trimestre, ma agli osservatori quella australiana è parsa soprattutto una mossa difensiva. Quella stessa che non riescono o non possono al momento mettere in atto con la stessa efficacia la Banca del Giappone e la Bce, le vere forze perdenti nella guerra delle valute che nessuno mai dichiara.

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