Narrano le cronache finanziarie che l’allarme dei mercati sui conti pubblici italiani sia cessato. Lo spread tra BTp e Bund (quel termometro che a fine 2011 era così popolare da diventare addirittura uno dei botti di Capodanno a Napoli) sembrerebbe dirlo senza ombra di dubbio: il differenziale tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi è infatti ormai tornato su livelli tranquilli (130 punti base). Ma è proprio questo che pensa il mercato? L’allarme è davvero cessato? Gli investitori considerano l’Italia davvero al sicuro?
La domanda non è fuori luogo, dato che negli ultimi anni il debito pubblico non ha fatto altro che aumentare. E infatti, secondo lo studio realizzato dalla Fondazione Hume per Il Sole 24 Ore, l’opinione vera del mercato potrebbe essere ben diversa da quello che lo spread sembrerebbe dire: nel 2016 - sostiene il rapporto - la vulnerabilità relativa dei conti pubblici italiani percepita dal mercato continua a migliorare, ma resta prossima a quella media degli ultimi 7-8 anni. Insomma: l’opinione del mercato sull’Italia migliora, certo, ma non più di tanto. In altre parole: il mercato, pur “drogato” dalla liquidità della Bce, non ha affatto dimenticato il caso Italia.
Lo studio della Fondazione Hume parte da un dato di fatto: come si vede dall’ultimo dei grafici a lato, lo spread tra titoli di Stato di Italia e Germania racconta storie diverse a seconda del metodo con cui viene calcolato. Con quello tradizionale (cioè facendo la banale differenza tra il rendimento dei BTp e quello dei Bund) il risultato è noto: lo spread, grazie anche alla politica monetaria della Bce, non segnalerebbe più alcun allarme oggi. Ma se lo spread si calcola in altro modo, per esempio come rapporto tra rendimenti italiani e tedeschi, allora il risultato cambia: nel 2016 i mercati segnalerebbero - con questo schema di calcolo alternativo - un elevato allarme sui mercati per quanto riguarda l’Italia. Molto più elevato rispetto alla famosa crisi dello spread del 2011. La Fondazione David Hume ha provato ad elaborare lo spread Italia-Germania in cinque modi diversi, ottenendo 5 risultati diversi: ogni volta la storia raccontata dallo spread cambia.
Di quale «spread» bisogna fidarsi dunque? E soprattutto: che cosa pensa davvero il mercato dell’Italia? Difficile dare una risposta sicura: ogni metodo di calcolo alternativo ha infatti alcuni elementi che lo rendono attendibile e altri che lo rendono meno affidabile. Ma una cosa è certa: «Guardare solo lo spread più rassicurante, che ignora del tutto il crollo dei rendimenti medi, può rivelarsi una scelta alquanto incauta», si legge sul rapporto.
Ecco perché per capire meglio cosa il mercato pensi dell’Italia, e della sua vulnerabilità, bisogna fare almeno due passi indietro. Innanzitutto, bisogna analizzare i fattori che influenzano e determinano lo spread “tradizionale”. Poi, bisogna cercare un metodo di calcolo meno esposto a variabili esterne. La Fondazione Hume ha fatto entrambi i passi indietro.
Per quanto riguarda i fattori che determinano lo spread, lo studio ne evidenzia tre. La prima forza è, ovviamente, «il giudizio dei mercati sulla sostenibilità del debito di un Paese». La seconda è il livello medio dei tassi d’interesse. La terza è il grado di allarme dei mercati, dato che a volte sono in una fase di “sonno” (cioè tendono a sottovalutare le differenze tra i vari Paesi) e altre in una fase di “allerta” (cioè sopravvalutano le differenze).
Per scorporare la seconda e la terza, e per trovare un più affidabile indicatore sulla percezione che i mercati hanno della vulnerabilità relativa dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei, la Fondazione David Hume ha pensato di elaborare uno «spread» che comporti un doppio raffronto: sia con i rendimenti dei titoli di Stato del Paese più affidabile (la Germania), sia con i tassi di quello meno affidabile (escludendo il caso patologico della Grecia, con Portogallo o Irlanda). In questo modo si può costruire un indicatore che parta da zero (livello del paese più solido) e arrivi a uno (livello del Paese più vulnerabile), inserendo nel mezzo tutti gli altri Stati.
Ebbene, come si vede dal primo dei tre grafici a lato, l’Italia nel 2016 in questa specie di righello “quota” a 0,44, contro 0,50 della Spagna, 0,23 dell’Irlanda e 0,13 della Francia. Ecco dunque che si scopre che la vulnerabilità dell’Italia, percepita dai mercati, è oggi in miglioramento (era più alta a fine 2015) ma non così tanto come lo spread tradizionale lascerebbe intuire. Restiamo - sottolinea il rapporto - «nella media degli ultimi 7-8 anni». E in effetti, considerando il debito pubblico che si ritrova l’Italia, questo può essere l’indicatore che più si avvicina alla reale percezione dei mercati.
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