L’età media elevata delle professioni e dei mestieri è specchio dell’Italia invecchiata.
Questo invecchiamento provoca profonde trasformazioni, con una forza che è paragonabile solo al passaggio intenso che stiamo vivendo verso la società tecnologica.
I due fenomeni corrono in parallelo: nonostante gli anziani la vivano con sospetto, la tecnologia può fare molto per servizi e produttività di una società invecchiata.
L’invecchiamento ha il valore della vita, la longevità. Comporta però l’apertura di nuove finestre problematiche, tra loro interrelate, come la bassa crescita economica, l’elevata disoccupazione, l’invecchiamento di mestieri e professioni.
Tutti fenomeni di lungo periodo, aggravati dalla crisi recente e che s’intersecano l’un con l’altro nel divario generazionale, un buco nero in cui precipitano una serie di trasformazioni strutturali associate ad aspetti etici e normativi. Anziani e giovani diventano due generazioni che hanno difficoltà a comprendersi. Parlano due linguaggi diversi. Il digital divide, la familiarità alle nuove tecnologie li depista. L’80% degli over 64 non è utente di internet (contro il 9% dei 19-34enni). Non conosce la dimensione virtuale. A questo vantaggio potenziale dei giovani sugli anziani si oppone l’attuale apartheid giovanile, popolato da disoccupazione, precarietà, lavoro nero, neet. Figure e ruoli che rischiano di cronicizzarsi. Su questo un diluvio di parole, irrisolte nei fatti. Perché non sono seguiti fatti concreti su una disoccupazione giovanile da anni a livelli record? Che dire dello spreco di capitale giovanile, istruito mai come prima e familiarizzato ai nuovi linguaggi?
La risposta è che stiamo vivendo la dominazione della generazione più potente degli ultimi 50-60 anni, che ha messo in inferiorità numerica tutte le generazioni a essa successive. Sono gli ex-baby boomers, oggi over60, che hanno goduto dell’ombra dell’albero piantato dai loro padri durante la Ricostruzione: primi giovani del nuovo benessere italiano. È la prima generazione istruita che ha azzerato la mobilità sociale e ha creato una società d’insiders via via più anziana, a volte aiutata dalle leggi, come nei recenti casi del blocco delle assunzioni nella Pa o dell’aumento dell’età pensionabile. A farsi beffe della disoccupazione record dei giovani, vi sono i recenti dati Istat che registrano una crescita dell’occupazione tra i lavoratori più anziani. Tutto porta a un invecchiamento di mestieri e professioni a danno dei giovani, a un’esclusione con costi economici e sociali. Uno tra gli altri, è la difficoltà del Paese a rinnovare la propria società ed economia in chiave tecnologica senza l’apporto dei giovani. Anche su questo c’è stato un ulteriore diluvio di parole, questa volta a sfondo etico. Da un canto, c’è chi ha considerato gli over60 arroccati in un cinico egoismo generazionale, per cui gli attuali silver boomers rischiano di passare alla storia come la generazione della verità corrotta: che sapeva, ma non si è preoccupata di fare nulla. Ha beneficiato della ricostruzione e dell’industrializzazione del Paese e sta prendendo prestiti dal futuro dei giovani. Dall’altro canto, c’è chi ha puntato l’indice contro i giovani, colpevolizzandoli in quanto “bamboccioni”. Non basta desiderare per fare quello che si vuole, bisogna metterci testa e olio di gomito. I giovani, al contrario, sono intossicati dal benessere, presi costantemente da una pigrizia domenicale che evita il loro divorzio dal passato.
Il divario generazionale è più complesso di quanto prospettato da queste due sponde. Basta citare la diaspora dei giovani (soprattutto disoccupati e studenti) da un Paese troppo preso dai rumori del passato. I politici, poi, pensano alle prossime elezioni e non al bene comune delle nuove generazioni, i quarantenni sono giovani in realtà non più giovani e i vecchi non si sentono più così tanto vecchi e tengono duro su reddito e rendite. In breve, il Paese continua a ignorare che la sua digitalizzazione produce effetti solo se c’è saper fare, un sapere codificato che è a largo appannaggio dei giovani. Per ristabilire un equilibrio in modo tale che, per dirla come Khalil Gibran, la generazione più giovane sia la freccia e la più vecchia l’arco, ci vorrebbe una crescita sostenuta che consentisse alle nuove generazioni un processo di più cospicua accumulazione della ricchezza durante la vita lavorativa, accorciando i pesi del passato. Il divario generazionale è una ferita. Il buon esito della sua cicatrizzazione dipende dalla crescita, dalla cura del capitale umano e dall’innovazione. Insiders permettendo.
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