Per chi segue l'America è una correlazione impossibile: Wall Street è contro un candidato repubblicano per la Casa Bianca che promette di abbassare le tasse e di eliminare centinaia di regole. Eppure in queste tormentate elezioni per la Casa Bianca del 2016 è successo anche l'impossibile, con tanto di prova: quando Hillary è entrata in crisi nei giorni scorsi dopo gli interventi a sorpresa dell'FBI, i mercati si sono mossi al ribasso. Sulla carta è lei il candidato antibusiness, vuole aumentare le tasse, non vuole concedere alle grandi aziende una riduzione dal 35% al 10% per il rimpatrio di alcune migliaia di miliardi di dollari di profitti esteri e vuole stringere le regole, soprattutto in materia ambientale.
Hillary, che pure oggi è in difficoltà, si trova anche in forte debito nei confronti di due personaggi politici profondamente antibusiness, i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Ma resta lei la beniamina di Wall Street.Che cosa è successo dunque? Possibile che la follia che ci ha accompagnato passo passo in queste elezioni abbia contagiato i razionali, preparatissimi operatori di Wall Street? I grandi manager delle multinazionali? I banchieri, che da sempre sanno come leggere l'impatto sui numeri, il “bottom line”, come si dice in gergo, di qualunque decisione o proposta della politica? La risposta è ovviamente no. Non sono impazziti. La spiegazione è più semplice: ci sono tre elementi nell'impostazione politica di Donald Trump che innervosiscono i protagonisti dell'economia a tal punto da mettere in secondo piano sia possibili vantaggi fiscali che riduzini del “red tape” del groviglio di regole che anche qui crea spesso non pochi problemi.Il primo elemento riguarda la promessa di Trump di scardinare l'ordine multilaterale così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 70 anni. L'impianto multilaterale per la governance della globalizzazione è la piattaforma su cui l'America e il resto del mondo hanno potuto impostare politiche di crescita internazionale; è il quadro giuridico e di sicurezza che incoraggia gli investimenti e i commerci internazionali. Dobbiamo risalire alla fine della Seconda Guerra Mondiale per trovare l'embrione di un'architettura sopravvissuta alle interperie del tempo, alle differenze e ai litigi fra paesi sovrani, e persino alla Guerra Fredda.
In due anni, fra il 1944 e il 1945 nascono le grandi istituzioni che devono proteggere il pianeta dal rischio di nuove catastrofi belliche mondiali. Fra il 1 e il 22 luglio del 1944 a Bretton Woods nascono il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e concettualmente l’organizzazione per il commercio mondiale. Nel 1949 si firmano gli accordi per l’Alleanza Atlantica.
Da queste strutture embrionali l’architettura cresce, nascono strutture multilaterali ostili all’Occidente, come il Patto di Varsavia. L’Europa decide di cercare la formula del mercato comune. All’interno della Banca mondiale o del Fmi si formano gruppi di paesi emergenti che ostacolano gli indutrializzati. Prende corpo il G5 che poi diventa G7. Nasce per ultimo il G20, lanciato da Barack Obama nel 2009 dopo la crisi finanziaria che porta al dialogo comune i 20 maggiori paesi del mondo. Tutto questo sotto la leadership americana, con un obiettivo facilitare il dialogo.
Trump in campagna elettorale ha ridicolizzato queste strutture. Le ha attaccate, promette di eliminarle o di ridurle ai minimi termini. Aizza l’opinione pubblica: chiede l’eliminazione del Nafta e l’imposizione di tariffe con la Cina. Wall Street a differenza di Trump studia la storia e sa che la crisi e la depressione successiva al crollo del 1929 c’è stata solo perché i governanti di allora si ostinarono a chiudere le frontiere e a impedire politiche monetarie o fiscali aggressive. Il primo livello di preoccupazione dunque riguarda la chiusura, il danno che Trump può portare alle fondamenta economiche del paese: come sopravviverà l’America industriale in un contesto multilaterale soffocato? Come sopravviverà il paese se si rastrelleranno per espellerli 12 milioni di latino americani che oggi lavorano alacremente in America spesso pagando anche quelle tasse che Trump ha magistralmente eluso?
Il secondo livello di preoccupazione di Wall Street riguarda l’ostilità di Trump nei confronti del sistema bancario. Promette di rinegoziare il debito americano, se ce ne sarà bisogno. Una proposta questa che potrebbe mettere in subbuglio l’intero mercato del debito internazionale. Infine c’è il terzo elemento, quello della imprevedibilità. Donald Trump è imprevedibile perché fondamentalmente non conosce gli aspetti tecnici di molti contenziosi internazionali o interni, non conosce le procedure e non studia i dossier.
Per questo Wall Street teme Trump e preferisce Hillary: anche se Madam Clinton dovrà dare dei contentini a Elizabeth Warren, procederà in modo comprensibile per gli avvocati e in un quadro di certezza. Dietro la retorica delle promesse elettorali sono questi i problemi con cui si confronta l’America. Resteranno il mattino del 9 novembre, quando conosceremo il nome del vincitore della Casa Bianca 2016. Da quel momento in avanti non ci sarà più tempo per la filosofia. Si dovrà passare all’azione e il pensiero condiviso fra molti industriali è sintetizzato in questo: Trump è meglio come candidato che come presidente. Hillary sarà meglio come presidente che come candidato.
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