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L’inflazione resta bassa malgrado i maxistimoli

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L'Analisi|l’analisi

L’inflazione resta bassa malgrado i maxistimoli

La Banca del Giappone ha riconosciuto la sconfitta. Ha spostato (per la settima volta dal 2013), la data entro la quale l’inflazione potrà salire all’obiettivo due per cento, ma a sorpresa non ha modificato la sua politica monetaria che peraltro, come quella fiscale, va a pieni giri.

Il Giappone non è solo. In Eurolandia il quantitative easing - gli acquisti di titoli della Bce - sta ufficialmente avviandosi alla fine, prevista per marzo 2017 (ma potrà essere esteso, ovviamente), e l’inflazione non dà segnali di ripresa. L’indice dei prezzi è salito a ottobre dello 0,5%, in accelerazione dallo 0,4% di settembre e dallo 0,2% di agosto, ma non c’è nessuna nuova tendenza in gioco: rispetto al passato sono calati meno i prezzi dell’energia, che pesano per il 10% sul totale e hanno spinto in alto l’indice. L’inflazione core resta però ferma allo 0,8% e i prezzi dei beni industriali - quelli in genere più aperti alla concorrenza internazionale - continuano a salire dello 0,3% annuo. Negli Usa le cose vanno un po’ meglio - l’inflazione al consumo sale dell’1,5%, quella Pce core (preferita dalla Fed) dell’1,7% - ma non al punto da convincere i banchieri centrali a cambiare marcia: ci sarà forse un rialzo dei tassi a dicembre, ma il ritmo della stretta resterà molto lento nel 2017. I timori dei mercati di una ripresa dell’inflazione sembrano dunque poco fondati.

Il caso del Giappone è il più interessante: il paese sembra aprire una strada che anche altri potranno percorrere. La politica economica di Tokyo è molto espansiva, l’ultimo grande stimolo fiscale - il trentesimo dal 2000 - è di 27mila miliardi di yen (circa 235 miliardi di euro), il 6% del pil. Non sembra inoltre - i calcoli non sono facili né solidi - che la domanda sia scarsa rispetto al potenziale. Il problema - del Giappone, e probabilmente anche degli altri paesi avanzati - è allora altrove, dal lato dell’offerta.

L’ipotesi che il mondo stia affrontando una fase di eccesso di offerta, legato agli enormi investimenti effettuati in passato, soprattutto nei paesi emergenti (spesso da parte di aziende dei paesi ricchi), non è nuova, anche se richiede un’attenta verifica. Forse v a integrata - come invita a fare Stephen L.Jen di Eurizon Slj Capital - con altre considerazioni, come lo spostamento degli investimenti dal manifatturiero verso servizi e consumi, e in generale verso attività intangibili e proprietà intellettuali.

Se l’ipotesi fosse vera, significherebbe però che tutti gli sforzi compiuti in politica monetaria e quelli (compiuti o anche solo auspicati, per esempio in Europa) in politica fiscale possono avere - come in Giappone e, in parte, in Eurolandia - risultati molto limitati. Chi obietta che senza queste interventi la situazione sarebbe peggiore, e di molto, corre il rischio di confermare proprio l’idea che l’economia è colpita da forze molto potenti, e probabilmente strutturali, non cicliche, da affrontare quindi con politiche microeconomiche, e molto meno con i macrostrumenti dei tassi e delle spese pubbliche. L’enfasi spesso data alle riforme strutturali - che non si limitano al mercato del lavoro - e alla “composizione” delle spese pubbliche trova in questo contesto un significato molto più incisivo. Forse però occorre anche cambiare gli obiettivi di politica economica: la bassa inflazione, insomma, è davvero così tanto cattiva?

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