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Dossier Liu Xiaobo: una vita vissuta nella verità

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Liu Xiaobo: una vita vissuta nella verità

  • – di Ma Jian

La notizia della libertà condizionale per motivi di salute di Liu Xiaobo, il dissidente cinese e Nobel per la pace, è arrivata come una doccia fredda per i tanti amici e sostenitori di tutto il mondo. Perché sappiamo tutti che il governo cinese rilascia i prigionieri politici per trattamenti medici solo quando è imminente la loro morte. La morte di Liu avvenuta il 13 luglio, appena pochi giorni dopo aver scambiato una cella carceraria con un letto di ospedale, ha confermato le nostre peggiori paure.

Quelle paure si basavano su precedenti esperienze dolorose. Liu è solo l’ultimo di una lunga lista di prigionieri politici cinesi che sono morti a seguito di maltrattamenti o mancanza di cure tempestive durante il periodo di detenzione.
Quando Li Hong, ex direttore di Zhejiang News, fu incarcerato «per incitamento alla sovversione dello Stato» nel 2007, entrò in prigione in buone condizioni di salute. Tre anni dopo è stato rilasciato per motivi di salute, un’ombra paralizzata di quello che era un tempo. È morto poco dopo in un letto d’ospedale, circondato da agenti per la sicurezza.

In modo analogo, l’attivista per i diritti umani Cao Shunli fu arrestata con l’accusa di «fomentare liti e provocare guai» nel 2013 mentre era diretta a Ginevra per un corso di formazione. Le sono state negate le cure mediche dopo essersi ammalata durante la detenzione ed è stata ospedalizzata solo una volta entrata in coma. È deceduta alcuni mesi dopo, attaccata a un respiratore.
Due anni dopo, nel 2015, il monaco tibetano e capo della comunità Tenzin Delek Rinpoche si è misteriosamente ammalato in carcere. Le autorità gli hanno negato le cure mediche. Dopo la sua morte, il governo si rifiutò di consegnare il suo corpo per una tradizionale sepoltura, decidendo per la cremazione – senza eseguire alcuna autopsia.

Ma la morte di Liu è stata differente. La sua fama e levatura di raggio internazionale di speranza, libertà e democrazia implicava che le autorità cinesi non potessero nascondere sotto il tappeto il suo destino con la stessa facilità con cui hanno agito con altri. Quindi, da un lato censuravano le notizie su Liu nei media nazionali, dall’altro mostravano all’estero una macabra pantomima in cui un uomo morente era costretto a giocare il ruolo da protagonista.

Una storia sotto controllo
Una volta garantite le cure mediche, il dispotico regime che ha condannato Liu a una pena detentiva di 11 anni nel 2009 solamente per aver sostenuto la riforma democratica ha fatto di tutto per mostrarsi come il suo misericordioso protettore. È stato mostrato un video in cui degli agenti di sicurezza in posa come dottori, attorno al letto di ospedale di Liu sentono un dottore tedesco e un dottore americano dire alla moglie, Liu Xia, che «le autorità cinesi si impegnano molto per curare suo marito». Furiosi per essere stati usati come tirapiedi, i dottori hanno successivamente rilasciato una dichiarazione: «Liu Xiaobo e la sua famiglia hanno richiesto che le cure restanti venissero fornite in Germania o negli Stati Uniti. Sebbene un grado di rischio esista sempre nello spostare un paziente, entrambi i medici credono che il Sig. Liu possa essere trasportato in sicurezza con le appropriate cure e l’assistenza medica adeguata per il trasferimento».

Le autorità cinesi hanno insistito che Liu fosse troppo malato per viaggiare. La verità è che non gli avrebbero mai concesso il desiderio di morire in un Paese libero. La sua morte doveva avvenire sotto i loro occhi, dove non poteva usare il suo ultimo respiro per denunciarli e dove il suo funerale non potesse diventare teatro delle condanne al loro governo oppressivo.

Di fatto, la pantomima è proseguita dopo la morte di Liu. Al comunicato stampa due giorni dopo, l’impassibile portavoce del governo ha annunciato agli agenti di sicurezza cinesi che posavano come giornalisti che Liu Xiaobo era stato cremato «secondo le volontà della famiglia». Sono state mostrate le immagini di una cerimonia di addio organizzata in fretta e furia alle 6:30 di quella mattina, con il corpo di Liu circondato da vasi di crisantemi bianchi, moglie e figli in fila da un lato e la polizia segreta in posa come “buoni amici” dall’altra.

In una seconda conferenza stampa quel pomeriggio, il fratello di Liu, Liu Xiaoguang, ha annunciato che le ceneri erano state sparse nel mare. È stato mostrato un video di un’urna verde immersa nell’Oceano Pacifico, con Liu Xia che osserva in silenzio dal pontile. Liu Xiaoguang ha espresso la sua «immensa gratitudine per le cure umanistiche del Partito e del governo», che a suo avviso, hanno dimostrato la «superiorità del sistema socialista della Cina». Nel tentativo di spiegare l’assenza di Liu Xia, il portavoce del governo ha spiegato che lei «si sta godendo la sua libertà, ma poiché ha appena perso il marito, prova un grande dolore e noi cerchiamo di non disturbarla dall’esterno». Ancora una volta, il pugno del tirante veniva mascherato dal guanto di velluto della falsa compassione.

Un filmato postato su Twitter ha rivelato gli unici momenti di buonsenso in questa spregevole e macabra farsa. Quando il fratello di Liu ha lasciato la stanza, una vera giornalista ha chiesto: «Dove è Liu Xia? Chi erano tutte quelle persone nella camera funeraria? Erano amici di Liu Xiaobo?» Quando la conferenza stampa stava per chiudere i battenti, ha incalzato di nuovo: «Posso fare una domanda? Perché non sono consentite domande in questa conferenza stampa? Ho molte domande! Non provate vergogna? Il mondo intero vi sta guardando…»

Le autorità l’hanno ignorata e hanno lasciato la stanza in rigoroso silenzio.
Liu avrebbe, senza dubbio, ammirato la sua coraggiosa ricerca della verità. Lui era, dopo tutto, un professore di letteratura all’Università normale di Pechino. Scrittore prolifico di critica letteraria, poesia e saggistica politica, un fervido e appassionato uomo con opinioni radicali e profonde convinzioni. Credeva che la Cina avesse prodotto solo due grandi intellettuali: il romanziere Lu Xun e l’economista Zhou Duo. L’azione di difesa da parte di quest’ultimo per la resistenza non violenta ha plasmato la sua versione del mondo.

La democrazia prima di tutto
Quando il movimento pro-democrazia ha preso il via a Pechino nel 1989, Liu ha lasciato la Columbia University di New York dove si trovava per un periodo di studio per rientrare in Cina e unirsi alle proteste. A fine maggio, ha incontrato Zhou Duo nella mia mini baracca a Pechino e lo ha convinto a unirsi a lui per uno sciopero della fame insieme al cantautore Hou Dejian e al direttore editoriale Gao Xin. Sperava che questo show di solidarietà da parte di quattro figure pubbliche, successivamente soprannominato «I quattro gentlemen di Tiananmen», avrebbe convinto altri intellettuali a unirsi al movimento.[

Quando i carri armati invasero piazza Tiananmen nelle prime ore del 4 giugno 1989, Liu si trovava lì, indebolito dalla fame. Ha afferrato i fucili dei manifestanti che si preparavano a resistere all’avanzata dei soldati e li ha fatti a pezzi; poi, con gli altri tre Gentiluomini di Tiananmen, ha negoziato con l’esercito di consentire alle diverse migliaia di studenti ancora in piazza di ritirarsi pacificamente, evitando spargimenti di sangue.

Nel mio romanzo Beijing Coma, il personaggio Shan Bo, che si rifà fortemente a Liu, maledici il premier cinese con il megafono: «Ti prenderemo alla fine, Li Peng! B-B-astardo! Lotteremo fino alla morte!» Dopo il massacro, in cui ha perso la vita un numero indefinito di persone nelle strade che circondano la piazza, Liu fu imprigionato per «istigazione alla propaganda antirivoluzionaria», ma fu rilasciato dopo aver scritto un’auto-ammissione di colpa, che poi avrebbe rimpianto amaramente. (Temendo per la mia stessa sicurezza, ho cercato rifugio a Hong Kong.)

Liu ha trascorso il resto della sua vita dentro e fuori dal carcere, senza avere mai la possibilità di assaporare la vera libertà. Anche tra i periodi di detenzione, ha vissuto sotto la costante sorveglianza della polizia. Le morti legate a piazza Tiananmen hanno gettato una pesante ombra sulla sua vita, e hanno rafforzato la sua determinazione a lottare pacificamente per la democrazia. Nelle mie frequenti visite in Cina continentale dopo il massacro, anche io ero sotto stretto controllo, quindi raramente avevamo la possibilità di incontrarci di nuovo e di parlare.

Quando sono tornato a Pechino prima delle Olimpiadi del 2008, gli agenti pubblici di sicurezza mi hanno convocato per un tè al Great Wall Hotel. La prima cosa che hanno detto è stata: «Non si incontri con nessun soggetto sensibile, e soprattutto con Stutterer Liu». Alcune settimane dopo, ho visto Liu per l’ultima volta, in un incontro organizzato in fretta e furia in una libreria di Pechino. Sapevamo entrambi di essere circondati dalla polizia segreta, quindi non abbiamo osato sederci per una chiacchierata.

L’anno seguente, dopo che il mio amico, l’attivista Ye Du, ha frequentato una lezione che ho tenuto all’Università di Zhongshan a Guangzhou, un ufficiale del Ministero della Pubblica Sicurezza lo ha interrogato, chiedendo se avesse portato una copia del manifesto Charta 08 pro-democrazia affinché la firmasse. In quel momento capii che Liu sarebbe andato incontro a un altro arresto. Ho parlato con Liu al telefono, che mi disse che secondo lui avrebbe preso al massimo tre anni.

Charta 08, il cui primo firmatario fu Liu stesso, si basava sulla Charta 77, che aveva osato rivolgersi al governo comunista della Cecoslovacchia per sostenere i trattati internazionali dei diritti umani che aveva sottoscritto. Liu fu arrestato nel dicembre 2008, e la sua condanna a 11 anni di detenzione rifletteva la spietata gestione del regime: un giorno per ogni carattere utilizzato nella Charta. Anche molti dei firmatari, compresi Gao Yu, Ai Weiwei, Pu Zhiqiang e Jiang Tianyong, furono incarcerati. Hu Shigen, Tang Jingling e Liu Xianwu sono ancora oggi dietro le sbarre.

Poco dopo che Liu fu insignito del Premio Nobel per la pace – «per la sua lunga e non violenta lotta ai diritti umani fondamentali in Cina» – nell’ottobre del 2010, Liu Xia fu messa ai domiciliari. Per otto anni, faceva visita al marito una volta al mese sotto stretta supervisione, fino al giorno in cui fu finalmente uscì con la carrozzina dalla prigione ed entrò nell’ospedale di Shenyang. In tutti quegli anni, non gli è mai stato concesso di restare da soli un momento.
Repressione e collaborazione

L’ultima incarcerazione di Liu è coincisa con la più forte repressione della Cina sulle libertà civili – tuttora in corso – dalla Rivoluzione culturale. Forti della loro leva economica globale e del compiacente silenzio della comunità internazionale, le autorità cinesi rimangono più intenzionati che mai a ridurre la libertà d’espressione e piegare tutte le opposizioni al governo. Nel 2015 sono stati arrestati oltre 300 avvocati per i diritti umani e attivisti.

I miei stessi libri sono banditi in Cina dal 1987, ma è solo dal 2011 che mi è stato negato il diritto di rientrare in patria. Vivendo in esilio, mi sforzo di cercare dei modi per esprimere solidarietà ai compatrioti che continuano a lottare contro la tirannia. Lo scorso mese, per il 28° anniversario dal massacro di Tiananmen (nota in Cina come “il quarto incidente di giugno”), dopo un anno in cui risiedo a Berlino, ho dipinto i numeri 6428 su una bandiera cinese e sotto la pioggia battente l’ho appesa alla statua di Karl Marx nell’area Mitte della città, per onorare i democratici pacifici che hanno lottato contro il sistema comunista.

Quando ho saputo che Liu era malato terminale, ho visitato la statua di Carl von Ossietzky, un critic dei nazisti e premio Nobel per la pace nel 1935, a cui, come nel caso di Liu, fu vietato di ricevere il premio in persona e morì successivamente durante la detenzione. Ho pulito con gentilezza la sua faccia di bronzo e attaccato una maschera casalinga di Liu per attirare l’attenzione sulla loro piaga condivisa. I bambini tedeschi si sono radunati per guardare. Ho passato a una bambina una delle maschere e mi sono chiesto se i suoi genitori fossero nati in quella che un tempo era la Germania dell’Est.

Quando il presidente cinese Xi Jinping è venuto in visita a Berlino due settimane fa, prima del summit del G20 di Amburgo, e ha presentato alla cancelliera Angela Merkel i due panda dello Zoo di Berlino, io e alcuni amici cinesi abbiamo indossato le mie maschere di Liu, ci siamo messi dietro il cordone della polizia e abbiamo urlato forte verso i cancelli di ingresso dello zoo: «Rilasciate Liu Xiaobo! Lasciatelo salire su un aeroplano per la Germania, proprio come hanno fatto quei panda!». Sotto il sole cocente, la polizia ha nervosamente osservato ogni nostra singola mossa, chiedendo ripetutamente di togliere il grande poster di Liu. Mi sono chiesto perché Xi non fosse stato portato al Memoriale dell’Olocausto o a vedere i resti del Muro di Berlino. Tutti questi ricordi del nazismo tedesco e del passato comunista sono meno importanti di uno zoo pubblico? I cittadini di Berlino non si sono sentiti a disagio ad accogliere due panda nella loro città invece che il morente dissidente Liu Xiaobo?

Il giorno dopo, un giorno prima che si aprisse il summit, migliaia di attori coperti di fango si sono riversati silenziosamente tra le strade di Amburgo per protestare contro l’apatia politica e l’inumanità del mondo moderno. Mentre guardavo le immagini online, improvvisamente ho immaginato che Liu fosse tra loro, in un pigiama d’ospedale a strisce, e che poi venisse pugnalato alle spalle, mentre urlava, «Non ho nemici!» prima di cadere a terra. I suoi assassini non sono solo i leader e gli apparatchik del Partito comunista cinese che hanno lentamente ucciso tutti gli avversari nella loro scalata al potere. I suoi assassini sono anche la Merkel, il presidente Usa Donald Trump, la premier britannica Theresa May, il presidente francese Emmanuel Macron e tutti gli altri leader democratici che sono talmente folgorati dalla ricchezza della Cina da trascurare i suoi sistematici abusi sui diritti umani. Durante l’intero summit, non c’è stato un leader che abbia criticato Xi per il trattamento riservato a Liu Xiaobo. Il giorno in cui è morto Liu, Trump ha definito Xi «un grande leader», «un bravo uomo» e «un tipo eccezionale».

Anche i cinesi però sono zombi-assassini – che da decenni subiscono un lavaggio del cervello per mano della propaganda e sono accecati dalla recente prosperità. Molti credono che i dissidenti come Liu siano nemici pericolosi dello Stato che meritano di marcire in carcere. Alla Cina non manca un Nelson Mandela pronto a riconciliare il suo tragico passato con un futuro democratico: oltre a Liu, ci sono stati Wei Jingsheng, Wang Dan, Ding Zilin, Pu Zhiqiang e altri. Ciò che manca ora alla Cina è un vasto movimento che punti al cambiamento – ampie folle che chiedono la libertà, come quelle che si sono radunate davanti ai cancelli del carcere per celebrare il rilascio di Mandela.

Per gli ultimi otto anni, le autorità cinesi hanno tentato di imbavagliare Liu e sua moglie, Liu Xia, anche quando gli hanno rubato la libertà e la dignità. Ma nel silenzio costretto dallo Stato, le parole della sua lezione da Premio Nobel risuonano ancora più forti: «Non c’è forza in grado di mettere fine alla ricerca umana di libertà», scriveva. «La libertà di espressione è il fondamento dei diritti umani, la fonte dell’umanità e la madre della verità».

Liu Xiaobo è morto come ha vissuto, con coraggio e integrità. Le sue parole continueranno a vivere, ispirando future generazioni a continuare a lottare per la libertà e la democrazia, e risvegliando i cittadini-zombi del mondo affinché si uniscano a questa lotta.

(Traduzione di Simona Polverino)

Ma Jian è autore dei romanzi Beijing Coma, The Noodle-Maker e The Dark Road. Attualmente usufruisce di una borsa di studio DAAD (Servizio tedesco per lo scambio accademico) come ricercatore a Berlino.

Copyright: Project Syndicate, 2017

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