L’Università di oggi mi pare, per molti aspetti, migliore di quella che ho frequentato negli anni Sessanta. Ci sono più ricercatori di ottimo livello internazionale, maggiore attenzione allo studente, una più intensa apertura al mondo esterno. Si vanno diffondendo prove di collaborazione strutturata con la ricerca applicata delle imprese. Il merito di questo miglioramento va alla maggiore autonomia degli atenei, non sempre da questi sfruttata al meglio, e al perfettibile ma essenziale lavoro dell’Anvur. Fin qui la buona notizia. Quella cattiva è che questo miglioramento non ha tenuto il passo con quello realizzato dai sistemi di educazione superiore che sino a pochi anni fa consideravamo, con buone ragioni, inferiori al nostro ma i cui Paesi hanno investito importanti risorse nella ricerca e nell’istruzione superiore e hanno creato l’humus istituzionale per renderle fruttuose.
Le migliori università competono globalmente, come mai prima d’ora, per garantirsi le più promettenti intelligenze, a cominciare dai candidati alle scuole di dottorato, e per ottenere finanziamenti pubblici e privati. Governi ed elettori si sono accorti che l’Università è costosa ma che le risorse impiegate hanno rendimenti elevati. La qualità del cosiddetto capitale umano, la ricerca di base anche al servizio della produzione, la terziarizzazione virtuosa che trasforma le città sono fattori decisivi non solo della crescita economica, ma anche di quella umana, sociale, culturale. Questa è stata, sin dal tardo Medioevo, la missione insostituibile dell’universitas studiorum.
Benché migliorato, dunque, il sistema universitario italiano arranca, stenta a tenere il passo con la dinamica internazionale. Per rendersene conto basta confrontare la proporzione di professori e ricercatori stranieri che lavorano nelle nostre migliori università con quella delle migliori di altri Paesi. Quanti dei nostri studenti di dottorato hanno passaporto non italiano? Quanti dei dottori di ricerca formatisi da noi lavorano in buone Università straniere? La questione del “posto” di cui parla Dario Braga (Il Sole 24 Ore del 20 luglio) è indubbiamente centrale. Nessuna Università può stare alla frontiera della ricerca e dell’alta formazione senza un sistema efficace di reclutamento e promozione. E senza la possibilità di trattenere i più validi ricercatori che abbiano avuto offerte di lavoro altrove.
Nessun dio malefico ha condannato il sistema universitario italiano a una condizione di inferiorità. Lo testimonia la qualità di tante ricerche, fiorite malgrado la mancanza delle due condizioni necessarie allo sviluppo di moderne Università: piena autonomia dei singoli atenei e risorse adeguate. Autonomia per stabilire procedure sull’assunzione, promozione, incentivazione del personale e per gestirle direttamente, così come per stipulare contratti di collaborazione di ricerca con imprese e istituzioni. Quanto alle risorse, la società italiana deve scegliere tra l’Università sostanzialmente gratuita, tipica dell’Europa continentale, provvedendo adeguati finanziamenti pubblici, e l’Università in buona parte finanziata dalle rette studentesche, prevedendo borse di studio, nel rispetto del dettato costituzionale sull’accesso a ogni grado di istruzione dei capaci e meritevoli anche se privi di mezzi. Il nostro sistema pone un limite alle “tasse universitarie” ma non provvede adeguati finanziamenti agli atenei, combinando così i difetti di entrambi i sistemi senza i vantaggi dell’uno o dell’altro.
Da presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha ripetuto, alle Università di Bologna e Venezia, di voler «fare uscire» gli atenei dal «sistema del diritto amministrativo». L’intenzione restò nel vago. Lo strumento per attuarla però c’è e consiste nella trasformazione dei singoli atenei in fondazioni di diritto privato e nella distribuzione tra essi delle risorse pubbliche sulla base dei risultati ottenuti, come avviene, per esempio, nel Regno Unito. Come ogni riforma istituzionale, anche questa creerebbe condizioni solo necessarie, non sufficienti, per migliorare la qualità della ricerca e dell’istruzione superiore. Alcuni atenei non sarebbero in grado di approfittarne, o lo farebbero per fini diversi dal quelli socialmente desiderabili. Ma ci sono atenei, già oggi di livello internazionale, che sono pronti a mettere a frutto un’autentica autonomia, come quella di cui godono le Università di successo di altri Paesi. Tra l’altro, si metterebbe fine, anche archiviando il valore legale dei titoli, alla finzione che tutte le Università (e tutti i docenti) siano uguali.
L’autonomia degli atenei è una delle tante cose che funzionano in altri Paesi ma che in Italia sembra impossibile attuare. Nessuno osa proporla, scontando la reazione pavloviana di occupazioni, cortei, scioperi, ponderosi editoriali e infuocati talk show contro l’intollerabile “privatizzazione dell’Università”. Reazioni, inutile dirlo, che nascondono interessi piccoli e grandi di una parte del mondo accademico. Ma c’è una ragione profonda per cui questa riforma non viene discussa e affrontata, mentre le abbiamo preferito le molte, arzigogolate e inefficaci “riforme” dei “concorsi” universitari che hanno lasciato indietro il nostro sistema. La ragione è che, mentre in molti Paesi scuola e università sono al centro dei programmi e dei dibattiti pre-elettorali, da noi l’elettore mediano non è interessato al problema. Salvo quando si tratti, appunto, di “posti” come nel caso della “buona scuola” o in quello dei “precari” dell’Università sempre in attesa di “stabilizzazione”. Governi e parlamenti, alla fine, rispondono alle domande di un elettorato da sempre poco interessato al sistema formativo, alla ricerca, alla trasmissione della cultura.
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