È indubbio che pochi siano i profili dell’ordinamento universitario più discussi e, anche perciò, maggiormente al centro dell’attenzione del legislatore di quanto sia stato, e continui a esserlo, il reclutamento e la progressione nei ruoli del personale cui sono affidati i compiti di didattica e ricerca, propri dell’istruzione superiore.
Tanto il come, ossia in base a quali procedure e verifiche sia possibile accedere ai ruoli e ai pre-ruoli universitari, quanto l’articolazione delle posizioni nelle quali si struttura quella che, nel lessico non solo italiano, viene definita “carriera accademica”, lungi dall’usufruire dei caratteri di continuità nel tempo utili a ogni organizzazione per la migliore acquisizione e gestione delle proprie risorse umane, sono diventati leva di un mouvement perpétuel che ha investito lo stesso assetto strutturale e funzionale del settore.
Le tante soluzioni immaginate, allo scopo di individuare i «migliori» meccanismi per la selezione dei «migliori», si sono così risolte nelle tante tappe di un percorso ininterrotto di riforme che ha chiamato i diversi soggetti del sistema a misurarsi con reiterati mutamenti di scenario, impegnandoli in una continua ridefinizione delle modalità con cui assolvere i propri compiti e, quanto alle sedi di governo, le proprie funzioni.
Ritenere che la responsabilità della rilevanza assorbente assunta dal reclutamento e dalla progressione nei ruoli, sino a farne la questione universitaria, sia da imputare al solo comportamento delle componenti accademiche e alla loro attenzione al “posto”, significa offrire una lettura senza dubbio accattivante del tema, in linea con la retorica dell’”Università dei baroni” con la quale si pretende di raccontare l’Università a chi non conosce l’Università . Tuttavia, si tratta di una lettura che fornisce una risposta troppo facile a situazioni complesse che meritano di essere descritte ed esaminate utilizzando altre categorie e altre prospettive di analisi.
Fra queste, vi è quella che conduce anche al comportamento dei legislatori o comunque dei (vecchi e nuovi) regolatori dell’Università. È infatti difficile non vedere nella debole qualità della regolazione dedicata a quelle che sono diventate le tante procedure per il reclutamento una delle ragioni che hanno assegnato centralità alla questione. L’eccesso di regole spesso invasive prodotte da una pluralità di sedi, la loro complessità e la loro cangianza dovuta anche al tentativo di correggerne le applicazioni che si rivelavano via via di più difficile tenuta, con le confusioni attuative e interpretative che ne sono derivate è stata infatti causa di un contenzioso, da sempre elevato e ora sin accresciuto, che ha ancor più condotto a leggere l’Università tramite le sempre attraenti cronache giudiziarie dei suoi reclutamenti.
Da un’altra prospettiva, più alta o se si vuole di sistema, sullo sfondo della questione reclutamento si staglia il più ampio tema dell’autonomia universitaria, delle diverse concezioni che di essa si accolgono e delle modalità in cui essa è, o può essere, esercitata dai soggetti che ne dispongono: Istituzioni universitarie, comunità accademiche e scientifiche.
In tutti gli ordinamenti, d’altro canto, le modalità del reclutamento sono strettamente correlate agli spazi che si riconoscono o per converso si sottraggono all’autonomia tanto che la storia dei reclutamenti è anche la storia delle diverse sorti da essa conosciute nei diversi Paesi e nei diversi tempi.
La scelta di rapportarsi all’autonomia universitaria limitandola, per favorirne il più corretto esercizio, è una delle scelte disponibili agli Stati e ben può considerarsi quella che è stata praticata dal nostro più recente legislatore. Alla legge di riforma del 2010 e ai suoi numerosi provvedimenti attuativi si devono infatti significative contrazioni degli spazi che connotano le dimensioni qualificanti dell’autonomia normativa, organizzativa, finanziaria, scientifica e didattica dell’Università. Ne sono appunto prova anche le tante, troppe regole alle quali sono stati assoggettati, ai fini e agli effetti delle procedure ordinarie per il reclutamento, i poteri di scelta delle comunità scientifiche, giungendo a eterodeterminare «chi» sia legittimato a effettuare le valutazioni di qualificazione scientifica dei candidati ai ruoli accademici e in base «a quali criteri».
Una scelta che non si sa quanto fosse e sia realmente necessaria. Di certo, è tra quelle più facili ma che rischiano, perciò, di essere anche inadeguate, in quanto strumento di politiche che rispondono alla sfida dell’incontro con le autonomie, specie nei contenuti più sensibili dell’autonomia scientifica, governandole tramite “comandi”, quasi a negarle o comunque bypassarle, anziché entrare in relazione con esse.
E se le tante regole che sono state pensate, modificate, corrette, integrate non hanno sin qui impedito all’Università di identificarsi e di essere identificata con la questione del reclutamento del suo personale docente e ricercatore, vi è da chiedersi se non sia davvero giunto il momento di “invertire la rotta”, compiendo passi in una direzione diversa, ossia in quella della “fiducia nell’Università” quale realtà storicamente determinata che preesiste a tutti i legislatori e ad essi chiede solo di essere riconosciuta per ciò che è.
Passi coraggiosi, che devono essere compiuti, in primo luogo, dai decisori politici, al momento distanti dal farsi interpreti di questo diverso modo di guardare all’Università, per essere semmai catturati dalla retorica sull’Università e dalla sua attrattività presso l’opinione pubblica nonché presso taluni esponenti delle stesse comunità accademiche che in ciò trovano occasione per affermare una loro supposta, premiante diversità.
Fiducia nell’Università significa, certamente, anche adottare singole misure, delle tanti da più parti sollecitate, ma in termini di politiche generali significa innanzi tutto cessare dal dedicare ad essa regole che cercano di determinarne i comportamenti e le scelte, rivelandosi spesso inidonee alla stessa realtà cui pretendono di applicarsi e che perciò ad esse si sottrae.
Fiducia nell’Università significa capacità di superare una concezione e una configurazione della sua pur indispensabile valutazione come strumento del suo governo, dunque come regolazione, per farne semmai lo strumento per il suo governo, fonte di elementi conoscitivi e valutativi per politiche di sua promozione, valorizzazione e di riequilibrio del sistema. Fiducia nell’Università significa superare la costruzione di un diritto dell’Università per giungere a un diverso diritto per l’Università, ossia fit for purpose, come deve essere peraltro ogni “buona” regolazione.
Fiducia nell’Università significa anche attenzione non solo al reclutamento del personale docente e ricercatore, ma anche di un personale tecnico-amministrativo qualificato e attrezzato, tramite idonee azioni di education & training, ai compiti che le Istituzioni Universitarie sono chiamate ad assolvere, specie quando intendano collocarsi in uno scenario internazionale.
Soprattutto, fiducia nell’Università significa attrarla nell’ambito delle politiche pubbliche generali, per superarne la considerazione di “settore” meritevole di politiche “di settore”, destinataria delle risorse “che restano”, quali sono quelle proprie dei settori. E perciò, significa probabilmente anche ritornare ad assegnarla alla responsabilità di un vertice politico/amministrativo ad essa dedicato e capace di porla, già nell’ambito delle azioni di governo, in rapporto con le politiche pubbliche generali e non con quelle di comparti, com’è l’istruzione, obbedienti ad esigenze e a logiche differenti.
Fiducia nell’Università significa in sostanza cambiare le lenti con le quali la si guarda, per procurare allo stesso corpo docente e ricercatore stimoli, ragioni nonché condizioni di contesto per guardare a sé in modo differente. Questo, d’altro canto, dovrebbe essere il compito delle politiche per il governo dei sistemi.
Liberare risorse non solo finanziarie, ma organizzative, conoscitive e soprattutto di governo per l’Università può d’altro canto significare liberare l’Università dalla questione delle sue risorse.
Carla Barbati è presidente del Cun, il Consiglio universitario nazionale
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