Ho sempre creduto che l’università fosse un motore di cultura e di sperimentazioni, un’officina dove produrre conoscenza e non oggetti da vendere, un’industria attrezzata a realizzare il progetto di un domani, probabilmente l’unica preoccupazione che una nazione civile dovrebbe coltivare al di sopra di altre.
Certo paragonare oggi l’università a un’industria può creare un cortocircuito: troppo spesso, infatti, nei luoghi dove si prendono decisioni (anche all’interno delle comunità accademiche, non solo nelle stanze della politica), si sente pronunciare il termine azienda. L’università, per funzionare, deve aziendalizzarsi: vocabolo minaccioso, oltre che inelegante, perché legato a una etimologia che spinge verso l’etica del fare (Giacomo Devoto lo fa derivare dallo spagnolo hacienda, mediato a sua volta dal latino facienda) anziché del pensare. Chi insegna dovrebbe essere uno che pensa o che studia, non un faccendiere, anche se dovessimo ammettere che sposare i principi dell’aziendalismo farebbe acquisire competitività in quei settori dove probabilmente gli atenei erano (o a volte restano tuttora) carenti: a cominciare dalle questioni meritocratiche, per esempio, passando attraverso i criteri di finanziamento sulla base dei quali attribuire fondi per la ricerca, per finire con le procedure di assunzione che restano pur sempre il tallone d’Achille del nostro sistema, come ricordava Dario Braga nel primo di questi interventi, sul Sole 24 Ore del 20 luglio.
Non c’è nulla da eccepire su questi discorsi: ne siamo tutti consapevoli e purtroppo verifichiamo ogni volta che, pur cambiando il colore dei governi, i problemi dell’università occupano un posto secondario . Se è vero che il sistema universitario è afflitto da molti mali, è vero anche che essi non riguardano soltanto la corsa al “posto” o i principi con cui valutare la qualità degli atenei, di cui gran parte degli addetti ai lavori lamenta l’astrusa macchinosità. Se alziamo la voce sull’esiguità dei finanziamenti o sull’inutilità di certi titoli che in realtà geografiche europee ed extraeuropee hanno maggiore prestigio (penso al compito di parcheggio per giovani studiosi che da noi svolge il dottorato di ricerca), finiremmo per attirare l’attenzione su questioni che nella stragrande maggioranza della gente susciterebbero la sensazione di corporativismo.
Più urgentemente, a mio avviso, bisognerebbe ripensare il mondo universitario nei suoi presupposti civili, osservarli come luoghi istituzionali da cui transita il carattere identitario di un popolo in formazione, come cantieri utili a edificare ciò che saremo domani sulla base di ciò che siamo stati ieri. Un corso semestrale è molto più che un trasferimento di saperi: è un gesto la cui responsabilità etica ha una ricaduta che va oltre il voto di un esame. Perciò non basta lamentarsi per gli scandali di “parentopoli” o deplorare la scarsa attenzione dei governi. Meglio sarebbe sottrarre i singoli atenei alla logica della competizione reciproca - una guerra fra poveri, dove l’unico trucco per essere considerati virtuosi è quello di strappare concorrenza al dirimpettaio - e riqualificare la presenza dei docenti in seno a una società che esige sempre più competenze, ma dove spesso il ruolo del lavoro intellettuale risulta circondato da basso consenso: dove sono e a cosa servono i chierici?
Un tempo, un ragazzo di provincia era costretto a spostarsi da casa intorno ai vent’anni. Il suo destino era l’avventura di Ulisse in viaggio dalla periferia verso il centro, alla conquista di affermazione professionale e culturale in cui era contenuto anche il senso dello spaesamento e del mettersi in gioco, l’oscillare tra la memoria del mondo abbandonato e l’utopia del luogo dove spendere i propri talenti. Studiare fuori sede era come ripercorrere una sfida tra sé e il mondo, l’università serviva a diventare uomini prima ancora che professionisti. Da molti decenni verifichiamo che questa idea è tramontata. Il decentramento delle sedi ha provocato il miraggio della convenienza e qualsiasi città, anche la più piccola e sguarnita di strumenti (biblioteche, sale di consultazioni, attrezzature scientifiche e laboratori) ambisce a diventare sede universitaria, provocando la sensazione di uno studio accademico con una parvenza da liceo. Meglio ripristinare la funzione catalizzatrice dei grandi poli che polverizzare le istituzioni.
Ricordo il mio arrivo a Milano negli anni Ottanta e le passeggiate con gli amici lungo i muri che costeggiavano il Politecnico a Lambrate. Qualcuno di loro, a voce sussurrata, rompeva il silenzio solo per dire: «Qui ha insegnato Natta, quello del moplen». L’idea che una di quelle aule fosse ancora impregnata della voce di un premio Nobel certificava il senso di un primato e di una libertà di cui potevi godere in nessun’altra parte al mondo se non lì.
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