Commenti

Dossier Il futuro del commercio tra leader populisti e capri espiatori

  • Abbonati
  • Accedi
Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il futuro del commercio tra leader populisti e capri espiatori

Con l’ampio incoraggiamento da parte del presidente Usa Donald Trump e di altri demagoghi populisti, la paura pubblica della globalizzazione è diventata una delle questioni dominanti del nostro tempo. Tra tutte le molteplici manifestazioni della globalizzazione, i populisti hanno preso di mira gli accordi commerciali internazionali. A sentire Trump, gli “orribili” accordi commerciali sono all’origine praticamente di ogni cosa che non va al mondo d’oggi.

Il nazionalismo populista sembra aver subito un duro contraccolpo negli ultimi mesi, con perdite amare nelle elezioni nazionali svoltesi quest’anno nei Paesi Bassi, in Francia e nel Regno Unito. Ma la globalizzazione non è ancora fuori dai guai. Le preoccupazioni dei cittadini circa l’impatto dell’integrazione economica internazionale crescono da anni, e non si dissiperanno semplicemente dopo un paio di elezioni o referendum.

Gli attuali dibattiti sulla globalizzazione si sono naturalmente concentrati sui singoli accordi di libero scambio e sugli accordi commerciali bilaterali come quelli tra gli Stati Uniti e la Cina. Ma hanno altresì affrontato questioni più astratte, come ad esempio ciò che potrebbe preservare il futuro della globalizzazione, e nello specifico, se un nuovo consenso globale basato sulle regole possa essere forgiato per il XXI secolo.

I commentatori di Project Syndicate sono stati partecipanti attivi in questi dibattiti, e pur propendendo per l’apertura politica ed economica in generale, e per il libero scambio in particolare, i loro punti di vista non sono affatto sulla stessa linea. Considerate insieme, le loro divergenti prospettive forniscono una prognosi multi-sfaccettata non solo del commercio internazionale ma anche dell’internazionalismo stesso.

Come rovinare gli accordi
Un’indicazione cruciale sulla direzione che sta prendendo il commercio globale è arrivata con l’insediamento di Trump, che ha immediatamente fatto ritirare gli Usa dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp) sottoscritta da 12 Paesi. Un’altra arriverà più avanti quest’estate, fa notare Christopher Smart di Harvard, ex assistente speciale del presidente Barack Obama per l’economia internazionale, il commercio e gli investimenti, quando la strategia e gli obiettivi dell’amministrazione Trump per rinegoziare il Tpp (North American Free Trade Agreement) alla fine «saranno sottoposti a un attento riesame».

Durante la sua campagna elettorale, Trump ha definito il Nafta il «peggior accordo commerciale» mai siglato dagli Usa. Ma vale la pena ricordare che quando il Nafta entrò in vigore nel 1994, andò ben oltre le esistenti norme e pratiche di commercio internazionale dell’epoca, e fece significativi passi avanti sul fronte del liberalismo economico. Ciò valeva soprattutto per il Messico, la cui adesione al Nafta segnalava la propria intenzione di diventare un’economia moderna e sviluppata. Come osserva Laura Tyson dell’Università di Berkeley, «Dopo il passaggio nel Nafta nel 1994, il commercio tra Usa e Messico crebbe rapidamente», a tal punto che oggi «Usa e Messico non si scambiano solo merci, ma producono anche merci bilateralmente».

“Le automobili straniere non sarebbero vendute negli Usa se ricambi e parti meccaniche per la manutenzione non fossero disponibili”

Anne Krueger, ex capo economista della Banca mondiale 

Evidentemente l’amministrazione Trump non comprende questo aspetto, senza contare che i dati sul commercio tendono a nascondere l’impatto totale delle catene del valore transfrontaliere. Secondo una stima citata dalla Tyson, «il 40% del valore aggiunto dei beni finali che gli Usa importano dal Messico deriva dagli Usa; il Messico contribuisce per il 30-40% di quel valore; il resto proviene dai fornitori esteri». Quando si considerano queste dinamiche delle catene del valore, il deficit commerciale Usa con il Messico di fatto si dimezza.

E ciò non considera nemmeno i milioni di posti di lavoro Usa direttamente connessi alle importazioni, fa notare Anne Krueger, ex capo economista della Banca mondiale. Dopo tutto, «le automobili straniere – rileva Krueger – non sarebbero vendute [negli Usa] se ricambi e parti meccaniche per la manutenzione non fossero disponibili».

Se Trump dovesse imporre un dazio più alto sulle importazioni messicane, come ha ripetutamente minacciato di fare, le esportazioni Usa dei beni intermedi verso il Messico e le esportazioni messicane verso gli Usa subirebbero entrambe un calo. Il risultato, suggerisce Daniel Gros del Center for European Policy Studies di Bruxelles, sarebbe un mercato più ristretto per le esportazioni Usa verso il Messico, componenti messicani più costosi nella produzione Usa e prezzi più elevati per i consumatori Usa. Di fatto, un’area in cui i consumatori Usa quasi certamente pagheranno il conto, asserisce un collega di Harvard di Smart, Jeffrey Frankel, è l’industria dello zucchero, che ha a lungo goduto di «una protezione commerciale, sotto forma di dazi e quote sulle importazioni, per garantire che i prezzi domestici dello zucchero superassero di gran lunga quelli dei Paesi fornitori come Australia, Brasile, Repubblica Domenicana, Filippine e Messico».

Secondo Frankel, queste misure protezionistiche sono costate ai consumatori Usa «secondo una stima 3 miliardi di dollari l’anno», alimentando al contempo il degrado ambientale e la perdita di posti di lavoro in altri settori dell’economia Usa. Ma malgrado gli scarsi risultati ottenuti sinora, Frankel si aspetta che la rinegoziazione del Nafta da parte di Trump «produca un dolce accordo per l’industria Usa dello zucchero», grazie a «un esiguo gruppo di ricchi produttori di canne da zucchero, soprattutto in Florida, che offrono generosi contributi per le campagne di politici di spicco». E, oltre a innescare conflitti di interesse – una prerogativa della presidenza Trump – Smart sospetta altresì che la rinegoziazione del Nafta riveli «i fondamentali punti deboli del pensiero di Trump» sul commercio.

Così non va, perché come osserva Frankel, l’accordo commerciale decennale dovrebbe essere aggiornato. Ad esempio, il Nafta non copre attualmente «l’e-commerce e la localizzazione di dati», e potrebbe fare di più per tutelare l’ambiente e i lavoratori. Inoltre, gli Usa nello specifico beneficerebbero degli aggiustamenti all’attuale sistema di risoluzione delle controversie investitore-Stato e del rafforzamento delle tutele alla proprietà intellettuale.

Un Nafta di nuova concezione potrebbe anche essere esteso. Con l’aggiunta di Paesi, il Canada potrebbe accettare di importare più prodotti caseari dagli Usa, in cambio di un accesso semplificato ai mercati giapponesi per le esportazioni di maiale, manzo e legname. Ovviamente, a questo punto, ammette Frankel, il Nafta somiglierebbe molto allo sfortunato Tpp.

In modo analogo, Smart sostiene che se Trump avesse portato avanti il Tpp, avrebbe potuto migliorare non solo la posizione Usa in Asia, ma anche la sua posizione nella rinegoziazione del Nafta. Il Messico era «più disposto ad avviare un dialogo per modernizzare il Nafta quando il premio includeva l’accesso sostenuto dagli Usa alle economie asiatiche attraverso il Tpp». Ora che il «Tpp è stato ritirato, l’entusiasmo messicano per un nuovo Nafta potrebbe attenuarsi».

Attenti a ciò che desiderate
Questo indica le molte conseguenze indesiderate che potrebbero insorgere dall’approccio di Trump al commercio in tutto il mondo. Come avverte Stephen Roach di Yale, la posta in gioco è particolarmente alta nel caso della Cina. Usa e Cina hanno da tempo quello che lui definisce «una relazione altamente reattiva» di co-dipendenza economica, dove una mossa sbagliata potrebbe controbilanciare una distruttiva spirale al ribasso. Keyu Jin della London School of Economics fornisce un esempio: se Trump agisce sulla base delle minacce fatte contro la Cina durante la sua campagna elettorale, dichiara, «la Cina potrebbe interrompere l’acquisto di aerei Usa, imporre un embargo sui prodotti di soia Usa, e gettare via i titoli di Stato Usa e altri asset finanziari».

Sinora, una guerra commerciale sino-americana sembra essere stata evitata, grazie al faccia a faccia tra il presidente cinese Xi Jinping e Trump avvenuto a Mar-a-Lago in aprile. Ma non significa che i due Paesi non si scontreranno in futuro. Inoltre, anche senza una dichiarazione di guerra commerciale, la Cina potrebbe vanificare l’agenda “America first” dell’amministrazione Trump, ad esempio facendo deprezzare la propria valuta.

Le autorità cinesi sono motivate a fare esattamente quello. Dal giugno 2014, fa notare Eswar Prasad della Cornell University, la Cina ha speso quasi 1000 miliardi di dollari per sostenere il renminbi. Se Trump le darà motivo di abbandonare l’intervento del mercato, il valore del renminbi scenderà, la competitività commerciale della Cina aumenterà, e il deficit commerciale dell’America nei confronti della Cina crescerà ulteriormente. E, come osserva ironicamente Jin, niente rende Trump più «furioso» del fatto che «la Cina esporti più verso gli Stati Uniti di quanto gli Usa esportino verso la Cina».

Ma una Cina che sia stata provocata senza ragione potrebbe fare molto più che ferire l’orgoglio di Trump. Kenneth Rogoff di Harvard, ad esempio, teme che «le grandi aree dell’Asia», compresi alleati e partner Usa come Taiwan e India, siano già «vulnerabili all’aggressione cinese». E, come osserva Kaushik Basu della Cornell, la politica estera isolazionistica di Trump non farà che incoraggiare la Cina – così come altri Paesi emergenti quali Messico e India – a diventare più nazionaliste e assertive.

Questa è l’ultima cosa di cui ha bisogno un mondo multipolare e già disordinato. La politica americana di isolazionismo degli anni 20 e 30, ci ricorda Nouriel Roubini della New York University, «ha contribuito a gettare i semi della Seconda Guerra Mondiale». Oggi, una politica simile potrebbe incoraggiare la Cina a riaffermare le proprie rivendicazioni territoriali in Asia e nel Mare Cinese Meridionale, o a sollecitare una corsa alle armi nucleari tra Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto. Anche impedendo una crisi geopolitica, fa notare l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz, la presidenza di Trump ha già introdotto un’incertezza che «scoraggerà gli investimenti, soprattutto gli investimenti transfrontalieri», e spingerà le imprese – molte delle quali danno lavoro agli americani – «a pensarci due volte prima di costruire catene di fornitura globali».

Secondo una prospettiva leggermente più ottimistica, però, la presidenza di Trump porterà il resto del mondo a forgiare nuovi legami. Ad esempio, Joakim Reiter e Guillermo Valles di Unctad intravedono l’opportunità per l’«Unione europea e altre economie emergenti» di formare una «alleanza Nord-Sud di Paesi intenzionati a difendere e promuovere il commercio globale». In modo analogo, Andrés Velasco della Columbia University, ex ministro delle Finanze cileno, ha proposto di ripristinare un piano dell’era George H.W. Bush per il blocco commerciale di libero scambio nelle Americhe, che non includa gli Stati Uniti. E ad est, scrive Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations, «la Cina promuoverà vari meccanismi per il commercio, le infrastrutture e la sicurezza in Asia», e «gli 11 membri restanti della Trans-Pacific Partnership potrebbero lanciare il proprio patto commerciale senza gli Usa».

Una confederazione di ignoranti economici
Fermo restante la sinofobia di Trump, molti commentatori di Project Syndicate intravedono nella sua politica commerciale una ricetta che renderebbe involontariamente la Cina grande e lascerebbe l’America in condizioni ben peggiori. Ciò soprattutto a causa dell’apparente ignoranza economica di Trump e dei suoi principali consiglieri. Jeffrey Sachs della Columbia University e Pascal Salin, ex presidente della Mont Pèlerin Society, assumono posizioni molto diverse sulla formulazione delle politiche economiche. Ma entrambi identificano lo stesso difetto nella retorica protezionistica di Trump, ossia, il fraintendere ciò che realmente significano i disavanzi commerciali. Come osservano sia Salin che Sachs, Trump e i suoi consiglieri continuano ad attribuire erroneamente lo squilibrio di parte corrente degli Usa ai «pessimi» accordi commerciali, quando invece si tratta di un risultato naturale del basso tasso di risparmio degli Usa.

Poiché Trump segue le «sensazioni di pancia» invece che una «valida teoria economica» Salin teme che potrebbe perseguire politiche che – come le elargizioni all’industria dello zucchero – renderanno «più difficile per gli importatori acquistare ciò di cui hanno bisogno dagli esportatori», cosa che «sarebbe particolarmente dannosa per gli Usa». E, come sosteneva lo scorso anno Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley, anche se i policymaker volessero mettere «una pressione al rialzo sui prezzi Usa» per respingere la deflazione e l’imminente trappola della liquidità, ci sarebbero modalità migliori che ricorrere a tale soluzione. «L’alternativa ovvia ai dazi all’importazione – scrive Eichengreen – è una politica fiscale del tipo plain-vanilla – ossia sgravi fiscali e incrementi nella spesa pubblica».

“Probabilmente le restrizioni sugli immigrati ridurranno la crescita, erodendo l’offerta di manodopera”

Nouriel Roubini, New York University 

Inoltre, Trump non ha alcuna chance di cambiare effettivamente il saldo di parte corrente degli Usa. «Non c’è una ragione particolare», ci rammenta Sachs, per credere «che un aumento delle barriere commerciali Usa possa avere effetti di prim’ordine sui tassi di risparmio e di investimenti Usa, e quindi sul saldo di parte corrente Usa». Questo per essere ottimisti. Se i precedenti presidenti Usa avessero agito in base agli stessi impulsi viscerali per salvare «posti di lavoro poco qualificati», l’economia Usa oggi «avrebbe potuto contare su un settore del manifatturiero più ampio e ad alta intensità di manodopera», fa notare Basu. «Ma sarebbe anche più simile a un’economia in via di sviluppo».

E Salin, dal canto suo, avverte che eliminare realmente il disavanzo commerciale Usa significherebbe sacrificare «lo standard di vita di cui ora godono moltissimi americani». Di fatto, secondo Martin Feldstein di Harvard, gli americani potrebbero aspettarsi di vedere i loro redditi reali (depurati dell’inflazione) «contrarsi circa del 5%».

Dato che Trump e i suoi consiglieri hanno abbracciato quello che Sachs chiama «una fallacia economica che gli studenti di economia del primo anno imparano ad evitare», non sorprende che abbiano anche proposto incaute politiche economiche che vanno ben oltre la sfera del commercio. Ad esempio, Roubini prevede che «probabilmente le restrizioni sugli immigrati ridurranno la crescita, erodendo l’offerta di manodopera». In modo analogo, J. Bradford Delong, sempre dell’Università di Berkeley, sostiene che la pressione di Trump per lo stimolo fiscale e gli sgravi fiscali possa insidiare la stessa agenda del presidente rafforzando il dollaro, rendendo più difficile per le aziende manifatturiere americane competere all’estero. E come dimostrano Emmanuel Farhi e Gita Gopinath di Harvard e Oleg Itskhoki di Princeton, tali politiche «eroderebbero la posizione netta di asset esteri dell’America» e si tradurrebbero in una perdita netta di capitale.

Purtroppo l’odierna ignoranza economica non si limita agli Usa. Jim O’Neill, ex presidente di Goldman Sachs Asset Management, crede che i Brexiteer del Regno Unito siano legati a molte delle stesse fallacie dell’amministrazione Trump. Innanzitutto, osserva O’Neill, «molti politici del Regno Unito – e tutti i sostenitori della campagna del ’Leave’ – stanno ignorando i probabili costi legati all’uscita dal mercato unico Ue» che, di default, creerà barriere commerciali tra Regno Unito e Ue.

A peggiorare le cose c’è il fatto che la strategia post-Brexit dell’attuale governo britannico punta a negoziare accordi commerciali “patriottici” con Paesi anglofoni quali Australia, Canada e Nuova Zelanda, quando invece dovrebbe raggiungere accordi con Cina, India, Indonesia e Nigeria. Come Trump e la sua ossessione per il saldo di parte corrente, la campagna del Leave sembra credere di poter risolvere tutti i problemi della Gran Bretagna semplicemente «riprendendo il controllo» del commercio e dell’immigrazione. Ma come fa notare O’Neill, il Regno Unito, con o senza Brexit, avrebbe ancora «una crescita della produttività persistentemente bassa, deboli programmi di istruzione e formazione e disuguaglianze geografiche».

Recuperare l’internazionalismo
Malgrado gli ovvi punti deboli, le argomentazioni economiche di Trump e dei Brexiteer hanno conquistato molte persone nel Nord America e in Europa. Per respingere la fuorviante e pericolosa storia dei populisti, i policymaker che ancora riconoscono i vantaggi del libero scambio globale dovranno trovare una nuova strada.

Prima di tutto, i leader politici, dell’industria e della società civile devono riconoscere che, come osserva Ngaire Woods dell’Università di Oxford, «coloro che difendono il libero scambio hanno perso credibilità con le persone che sperano di persuadere». Non è una sorpresa per Gros, secondo cui le élite politiche da anni ormai decantano i vantaggi del commercio, e creano «aspettative impossibili per la liberalizzazione del commercio». Il loro più grande errore, a suo avviso, è stato quello di ignorare il ruolo degli elevati prezzi delle commodity come propulsore «della straordinaria crescita del commercio negli ultimi decenni. Quando i prezzi delle commodity alla fine sono scesi, il commercio globale ha subito una battuta d’arresto».

Tali affermazioni da parte dei fautori del libero scambio non sono nulla di nuovo. In un documento in uscita, prendo in esame le dichiarazioni dei leader politici sugli accordi commerciali risalenti al Trattato di Roma del 1957, e scopro che l’eccessiva pubblicizzazione sembra essere la norma. Raramente i leader riconoscono i potenziali effetti distorsivi dell’apertura economica, o implementano politiche per mitigarli. Ma come avverte Woods, evitare le dure verità non è più un’opzione. Le élite dovranno essere ben più esplicite sulle conseguenze dell’integrazione economica globale, e al contempo «affrontare le profonde preoccupazioni delle persone», come la perdita di dignità che arriva con la dislocazione economica. Se i leader ragionevoli non diranno la verità, non dovranno sorprendersi quando i demagoghi in difesa dei nativi presenteranno i propri «fatti alternativi».

Inoltre, i policymaker devono sostenere la divulgazione della verità con azioni concrete. Come dimostrano l’ex assistente direttore-generale Onu Jomo Kwame Sundaram e Vladimir Popov dell’Accademia di scienze russa, i Paesi che hanno beneficiato di più dal commercio lo hanno fatto «fornendo adeguate indennità di disoccupazione e formazione professionale, e promuovendo opportunità lavorative più remunerative».

In riferimento agli Usa in particolare, Rogoff propone una imposta progressiva sui consumi per ridurre la disuguaglianza, così come riforme per sostenere innovazione e diffusione tecnologica. In modo analogo, Salin raccomanda imposte più basse e meno regolamentazioni, allo scopo di incentivare l’attività economica e la crescita. A ogni modo, una regola per le politiche sociali del XXI secolo, suggerisce Richard Baldwin del Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra, è che dovrebbero aderire al principio secondo cui bisogna “tutelare i singoli lavoratori, e non i singoli posti di lavoro”.

La globalizzazione nel XXI secolo
Questo principio è ancora più importante oggi, quando i progressi sul fronte dell’automazione e le nuove tecnologie digitali e senzienti minacciano sempre più i singoli posti di lavoro di molti settori. E non riguarda solo i Paesi sviluppati. Brahima Coulibaly del Brookings Institution avverte che «il calo dei costi della tecnologia» potrebbe far deragliare l’industrializzazione in gran parte dell’Africa prima ancora di iniziare. E così come le tecnologie che sostituiscono la manodopera non riguardano solamente i Paesi sviluppati, allo stesso modo non possono essere separate dalla globalizzazione. Come dimostra una recente ricerca condotta dall’economista di Oxford Adrian Wood, la logica della globalizzazione economica attivamente favorisce l’automazione.

Per quanto riguarda gli accordi commerciali, i governi hanno la responsabilità di affrontare gli effetti delle nuove tecnologie. Dovranno incentivare dialoghi onesti e spassionati sui rischi e sugli aiuti di un mondo iper-digitalizzato, per stabilire come poter regolamentare e progettare le nuove tecnologie al fine di produrre quanta più res publica possibile. Oltre alla progettazione delle singole tecnologie, osserva Tyson, molto dipenderà anche «dalla progettazione delle politiche che le riguarderanno».

Dani Rodrik di Harvard è più scettico. Il tempo per risarcire «i perdenti della globalizzazione» sostiene, «è arrivato e s’è andato». Con o senza misure a livello domestico per mitigare la distorsione derivante dal commercio e dalla tecnologia, bisogna ora «pensare di cambiare le regole della globalizzazione stessa» per garantire parità ed equità tra Paesi e settori. Nella visione di Rodrik, la cooperazione economica globale è stata sbilanciata, perché la finanza e il capitale riescono a muoversi molto più rapidamente tra i confini rispetto a merci, servizi, e soprattutto manodopera. E ovviamente le misure di regolamentazione nazionali e sovranazionali si muovono in tutta calma.

Per affrontare questi problemi servirà un sistema credibile in grado di reprimere crimini finanziari e paradisi fiscali, un regime globale che preveda una “border-adjustment-tax” per le emissioni di carbonio, un patto internazionale sui rifugiati, e un ammodernamento dell’Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights. A tale scopo, Oonagh Fitzgerald del Center for International Governance Innovation e Hector R. Torres del Fondo monetario internazionale propongono la formazione di una coalizione di Paesi, guidati dalle medie potenze, per riformare le istituzioni della globalizzazione nel 2018, quando Canada e Argentina guideranno rispettivamente il G7 e il G20.

Dimostrare il valore della cooperazione multilaterale sarà fondamentale per salvare la globalizzazione a livello politico. Un possibile risvolto positivo della decisione di Trump di far ritirare gli Usa dall’accordo di Parigi sul clima del 2015 è il fatto di aver spinto molti altri Paesi a riaffermare il proprio impegno nella lotta al riscaldamento globale. Ma, come ho precedentemente sostenuto, la comunità internazionale deve anche continuare a sostenere accordi come l’Information Technology Agreement della World Trade Organization, oltre ad esplorare altre opportunità simili per la cooperazione macroeconomica.

Allo stesso tempo, non bisogna mai dimenticarsi che non ci sono rapide soluzioni negli affari internazionali. Così come ci è voluto un decennio prima che l’avversione alla globalizzazione si riversasse nella politica nazionale, ci vorrà del tempo prima che il pendolo oscilli nuovamente dall’altra parte. Come sostiene Basu, l’odierna «crisi economica in slow-motion» certamente appare fosca; ma alla fine darà vita a una «rivoluzione digitale che promette di spingere la crescita a nuovi massimi».

I futuri dialoghi sul commercio dovranno tenere conto di questi imminenti cambiamenti, e della trasformazione concettuale in corso del commercio stesso. Secondo Tyson e Susan Lund del McKinsey Global Institute, «i flussi digitali transfrontalieri» già «evidenziano un impatto maggiore sulla crescita economica globale rispetto ai tradizionali flussi di merci commercializzate». Ciò significa che il commercio del futuro sarà nelle idee, ossia proprietà intellettuale; e questo la contraddistinguerà dal commercio per come lo conosciamo noi.

La proprietà intellettuale è caratterizzata da elevati costi iniziali e bassi costi di riproduzione. E poiché ciò implica un elevato vantaggio per chi si muoverà per primo, raggiungere il primato nazionale potrebbe rivelarsi il “Grande Gioco” del XXI secolo. Sfortunatamente per Usa e Regno Unito, è improbabile che Trump e Brexit mettano i propri Paesi nella posizione di vincere.

(Traduzione di Simona Polverino)

Rohinton P. Medhora è presidente del Center for International Governance Innovation di Waterloo, in Canada.

Copyright: Project Syndicate, 2017

© Riproduzione riservata