Il dibattito sull’Università italiana, aperto con l’articolo di Dario Braga (Il Sole 24 Ore del 20 luglio), offre una occasione di confronto sugli interventi che possono migliorare la qualità della didattica, la competitività della ricerca, e soprattutto la selezione e il reclutamento del personale docente.
La carriera universitaria aveva e ha tuttora molto a che fare con la preparazione culturale, le capacità individuali e le qualità dei singoli professori di trasmettere non solo nozioni e saperi, ma anche la giusta determinazione e passione per stimolare gli studenti a intraprendere le professioni desiderate, tra cui quella del ricercatore, ricca di soddisfazioni ma non priva di difficoltà.
Per diventare un buon ricercatore e docente sono importanti molti fattori: la curiosità e la spinta al rinnovamento, da sempre motori della conoscenza, ma anche la disponibilità al confronto critico, al mettersi in gioco, alla capacità di sottoporsi a valutazioni continue e di rendere conto del proprio operato a tutta la comunità, non solo a quella accademica.
Il rapporto di scambio e reciprocità fra docenti e studenti ha superato l’antico e rigido modello del maestro-saggio e allievo-discepolo, quello tipico dell’Università d’élite, per andare verso nuove forme di interazione sempre più espressione di una Università partecipativa e inclusiva.
Innanzitutto, per offrire una reale opportunità di crescita personale e professionale agli studenti, ogni professore deve essere disponibile a investire sulla sua formazione continua e su un costante aggiornamento delle proprie competenze e abilità che si adattino ai mutamenti di una società sempre più liquida.
In tale contesto risulta difficile individuare la formula giusta per selezionare il docente più capace e preparato. Il percorso formativo e professionale di ricercatori e professori è così molto articolato, fatto di esperienze internazionali, trasferimenti, esami, concorsi, attese, precariato e corsa al posto.
Alle Università tocca il compito di selezionare, secondo la disponibilità di punti organico a disposizione, i futuri professori e ricercatori, applicando norme, criteri e parametri non sempre funzionali alla valorizzazione e ottimizzazione di risorse e alla premiazione dei talenti formati.
Il talento per potersi esprimere deve incontrare l’occasione. E sono le rade opportunità - dove il numero di aspiranti è di molto superiore a quello dei posti disponibili - e le restrittive regole che normano queste possibilità di accedere alla carriera universitaria a creare criticità nel meccanismo di reclutamento di giovani docenti e ricercatori che possono realmente arricchire l’Università italiana per competenze e visioni strategiche.
La rigidità normativa, infatti, può precludere l’accesso a persone che possano essere più idonee in quel particolare ruolo, attività e periodo storico.
La distribuzione delle risorse stabilite annualmente dal ministero segue in buona parte oggi criteri di merito, tenendo in considerazione anche indici legati alla performance e alla qualità del personale reclutato: un cambiamento determinante e positivo, ma che incide solo relativamente sulla possibilità di intervento e autonomia delle singole Università.
Ne deriva così che avere una selezione meritocratica, basata su modelli condivisibili, come la procedura con doppio livello di selezione, con abilitazione nazionale e concorso locale, non basta ad attrarre, ma soprattutto, a trattenere i migliori ricercatori e professori in un contesto universitario che è chiamato a essere sempre più competitivo, internazionale e motore dello sviluppo sociale, economico e culturale del Paese. Sebbene il meccanismo di reclutamento del personale docente abbia subìto diversi cambiamenti negli anni, non è stato ancora in grado di valorizzare l’autonomia degli Atenei.
Affinché l’Università italiana possa essere al passo con una dimensione europea e internazionale deve essere grande, in termini di maggiori risorse e fondi. La risposta per garantire ai ricercatori più possibilità di crescita professionale in futuro è, pertanto, l’investimento in ricerca e didattica, il superamento di vincoli interdisciplinari nel reclutamento dei giovani con concorsi aperti, nei quali gli Atenei possano selezionare secondo le proprie reali necessità contingenti e vengano valutati, poi, per le scelte fatte in un sistema di autonomia responsabile.
Investire su un nuovo modello universitario significa: accorciare i tempi di precariato per ricercatori e docenti; dare loro maggiori prospettive di carriera; superare il localismo e agevolare la mobilità fra sedi locali e internazionali; e soprattutto impegnare più risorse pubbliche e private nella ricerca italiana, sollecitando alla partecipazione un maggior numero di enti finanziatori e alla donazione che è molto limitata nel nostro Paese.
Per fare questo occorre confrontarsi con chi fa e costruisce ogni giorno l’Università italiana, una scelta che deve diventare il punto di partenza a qualsiasi adozione di legge in materia. Bisogna prima di tutto che si definiscano gli obiettivi delle politiche formative in Italia, interrogandosi su quale sia la funzione sociale oggi degli Atenei, per poi comprendere come selezionare adeguatamente i formatori del futuro.
Se l’Università è davvero per il Paese il motore sociale di una economia basata sulla conoscenza, la linea politica può essere lungimirante nel riportare al centro dell’agenda il settore della formazione con incentivi decisi e investimenti. La risposta che arriverà dal talento se incontrerà questa occasione sarà sorprendente e consentirà all’Italia di emergere sulla scena internazionale.
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