Ho letto il dibattito, ricco e appassionato, che è seguito all’articolo di Dario Braga pubblicato sul Sole 24 Ore del 20 luglio. Poiché si tratta di recensire dati di fatto su ampia scala (l’università è, per definizione, universale), fornirò qualche ulteriore elemento di conoscenza.
Insegno come ordinario da 41 anni: 24 all’estero (in Svizzera e in Francia) e 17 in Italia (a Padova e a Torino).
Quando ho iniziato, a Ginevra, il Sessantotto era passato da poco: restava, dappertutto in Europa, poca o tanta febbre: l’Università si voleva critica e dunque il principio liminare era “leggere molto” (anche disordinatamente), classici e critici di tutte le discipline. Quella prima globalizzazione, dei saperi, degli orizzonti, delle attese («la Cina è vicina »…) è stata euforica: non sembrava così punitivo insegnare all’estero né vano apprendere elementi che “non sarebbero serviti”: l’università era fatta per sapere meglio, non per servire di più.
L’università atona
La frustrazione è nata dopo. Gli accessi indiscriminati alle Facoltà da un lato e troppi ope legis (infornate automatiche di ricercatori che hanno bloccato per decenni l’accesso di nuovi studiosi all’università) dall’altro, e infine un subitaneo “decremento” - come si dice oggi - di organico hanno riempito e poi svuotato in Italia le università.
Burocratizzandosi, i luoghi di ricerca diventano sempre più simili agli uffici delle imprese: il posto e il salario divengono centrali più che la domanda ben posta, alla materia, alla natura, alla società. Al sapere critico si è sostituito un sapere funzionale, il “trasferimento tecnologico” anche nella ricerca pura. Oggi si perde più tempo a riempire dossier per ottenere fondi per la ricerca che a fare la ricerca stessa. E la visione, la proposta di «mondi possibili », il recupero di quelli perduti, la vigilanza autocritica, dove sono?
Ho ricevuto al Collège de France molti borsisti italiani: per i primi anni (2000-2006) c’era, nella maggior parte di essi, volontà di rientrare e, rientrando, la maggior parte ha avuto posti di ricercatore nelle università italiane. Dopo, quasi più nessuno ha manifestato la volontà di rientrare in Italia. Occorre riconoscere che la «cooptazione» (rivestita di procedure concorsuali opache) ha funzionato molto male: basterebbe richiamare le osservazioni di Raffaele Cantone (settembre 2016) al convegno dei responsabili amministrativi degli Atenei italiani.
In Italia, che già destina pochissimi fondi alla ricerca, ci sono troppe università e poche biblioteche pubbliche funzionanti ; in certe sedi la bibliografia d’avvio per una tesi di laurea magistrale nasce subito vecchia, non aggiornata perché le biblioteche universitarie (almeno nelle discipline umanistiche) non hanno più i fondi per continuare gli abbonamenti alle riviste. L’autonomia, da questo punto di vista, non è un rimedio. In Francia, dove è stata adottata drasticamente, 8 Università sono sotto tutela per rischio di fallimento. L’autonomia così non è una risorsa, ma un aggravio burocratico supplementare.
Non solo per ragioni mie anagrafiche, ma per esperienza fatta in alcune sedi recentemente, non sarei ottimista sul «giovanilismo»: perché l’Università opaca degli ultimi decenni ha creato cuori spenti. L’università non ha più la febbre: ma non è guarita, è atona.
Un rimedio europeo
Che si può fare ? Chiedere molto di più a tutti: al Governo per le risorse, ai professori per la ricerca, ai giovani per una visione e tanta tenacia; se non c’è mordente e responsabilità, tutto il resto sarà vano.
«Old men ought to be explorers » scriveva T.S. Eliot nei Four Quartets; se i vecchi debbono essere esploratori, i giovani studiosi dovrebbero essere almeno “ansiosi”; avere di nuovo un po’ di febbre, dentro, perché l’avvenire non si crea per decreti legge.
Certo, molti dei migliori ricercatori italiani sono migrati, e il deflusso continua. Il problema principale oggi, nonché la vera sfida politica che ci sta di fronte – come già ho scritto in una recente inchiesta condotta da «Origami» - non è tanto che vengano fatte leggi per il “rimpatrio dei cervelli” (quando poi non c’è sufficiente competitività dei laboratori di ricerca nazionali), sebbene piuttosto che l’Europa cambi passo e si integri rapidamente divenendo un’unica nazione policentrica: allora sì che da Parigi, come da Berlino, da Londra, da Bruxelles, da Roma, la ricerca italiana ritroverebbe un ruolo certo eminente, e spesso di primato.
Unire la ricerca europea, unire l’Europa, per ritrovare l’Italia: compito difficile, ma le forze in campo sono già distribuite nei nodi strategici; basta riconoscerle e fornir loro una sorta di “assise”, un «Foreign Office » della ricerca italiana che supplisca alle lacune delle università italiane.
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