L'azienda è in una chiesetta sconsacrata dell'XI secolo, a Rimini. In una nicchia, l'immagine di Mark Zuckerberg, forse, ricorda il successo della campagna su Facebook fatta solo di una foto tutta nera. Pubblicizzava la Black Marketing Guru, fondata da Giacomo Arcaro, ventiquattrenne, star di Linkedin che usa tutto ciò che si muove in rete per promuovere i brand dei suoi clienti. Tra i quali Yoox, Rocket Internet, Engineering e altri. Anche qui, tra gli smanettoni delle reti sociali, si trovano tracce del lavoro del futuro.
I dipendenti sono una cinquantina. C’è una riunione in sagrestia, nell’abside ci stanno i commerciali, nella navata gli sviluppatori e gli esperti di social network. I collaboratori non hanno obbligo di andare in ufficio, a parte il venerdì pomeriggio quando c’è un dj-set. «Ma alla fine preferiscono venire a lavorare qui» racconta Arcaro. I nomi dei mestieri svolti da questi agenti del marketing online non mancano di creatività, come i “growth hacker”. Vantano la loro ultima “impresa”: un meccanismo per trovare automaticamente i numeri di telefono personali di tutti i “food influencer”. A loro non basta conoscere bene le piattaforme: vogliono estrarne tutto il valore possibile. Del resto, lo intuiscono: in un mondo nel quale le tecnologie cambiano a grande velocità, il mestiere di chi si limita a usarle è destinato a seguire la loro fatale obsolescenza. E allora cercano di coltivare un approccio profondo, pragmatico, curioso, creativo, orientato al risultato reale per l’azienda. «Molti clienti ci chiedono di aumentare i follower o i like, pensando che il problema sia Twitter o Facebook. Noi rispondiamo che vogliamo aiutarli a raggiungere i loro obiettivi di business» dice Arcaro. Anche per questo, con il creativo leader Arcaro lavora un matematico, Cristiano Gallinelli: «Il problema è il business design. I nostri clienti pensano di voler capire internet, ma in realtà hanno bisogno di scegliere il loro modello di crescita e di valutarne le probabilità di riuscita nel nuovo contesto». Le tecnologie passano, i risultati delle aziende restano.
Il problema di chi deve prepararsi al lavoro del futuro, in fondo, è tutto qui: come distinguere tra quello che passa e ciò che dura. In effetti, la fioritura di nuovi mestieri, nel mondo digitale, è persino esagerata. «Community manager, web analyst, web designer, cloud architect, app developer, social care expert, cyber security expert, social media analyst, data scientist, digital PR» elenca Giampaolo Colletti, fondatore di wwworkers.it. «Secondo la Commissione Europea la richiesta del mercato di queste professioni - con quelle che riguardano intelligenza artificiale, realtà virtuale, realtà aumentata - potrebbe oscillare tra 500mila e 700mila posizioni entro il 2020». Già oggi, spesso, la domanda non trova l’offerta. Secondo l’osservatorio Modartech: «Digital brand manager, graphic designer, virtual visual merchandiser, web marketing specialist, event coordinator: sono figure professionali richieste nel mondo della comunicazione, moda e design. Secondo Unioncamere, nel 2016, il 33% delle imprese ha incontrato difficoltà nel reperire lavoratori preparati». D’altra parte, è complicato. Ogni giorno c’è una nuova frontiera. Da qualche mese finalmente è emersa anche in Italia l’esigenza di promuoversi su AliBaba, la mega piattaforma cinese: ma richiede conoscenze totalmente diverse da quelle utili nel mercato occidentale. In realtà, alcuni mestieri sono legati ai cicli brevi di certe tecnologie e altri sono destinati a più lungo successo, ma molti non sono ancora noti. Il rapporto Tomorrow’s Jobs di Microsoft prevede che il 65% degli studenti di oggi farà lavori che ancora non esistono. Tutto questo richiede una nuova mentalità. Secondo l’Ocse, la distanza tra domanda e offerta di lavoro è soprattutto culturale. «La sfida? Le tecnologie digitali colpiscono l’occupazione in tempi brevi mentre fanno emergere nuove opportunità di lavoro lentamente» scrive Vincenzo Spiezia, dell’Ocse. «Serve tempo perché occorre creare nuovi mercati, trasferire risorse da un settore all’altro, sviluppare know how». Per accelerare occorre investire in tecnologie e formazione. «I lavori abilitati dal digitale richiedono capacità diverse. Alcune sono tecniche, come la programmazione. Ma altre non sono tecniche: la quantità di informazione disponibile richiede doti di pianificazione, rapidità nelle risposte, cooperazione tra le squadre di lavoro e grande leadership. Le tecnologie stanno ridisegnando l’organizzazione delle imprese, rendendo più importante la capacità di elaborare i dati, l’indipendenza di giudizio, l’autonomia gestionale, l’orientamento alla soluzione dei problemi e alla comunicazione». Ma secondo le stime dell’Ocse, meno del 40% di chi usa software al lavoro ogni giorno ha le skill che servono davvero.
Per imparare occorrono motivazioni. Che vengono dalla consapevolezza. La cultura adatta al lavoro del futuro scaturisce dall’incontro di fenomeni che cambiano in modo accelerato e valori che durano nel tempo. Il problema non è la flessibilità: serve una mentalità strategica che consenta di navigare nei cambiamenti mantenendo una rotta. In questo senso, un segreto c’è. Un testimone della trasformazione digitale è particolarmente adatto a spiegarlo.
«Non ho mai pensato di lavorare per l’economia». Cerca le parole, Paolo Barberis. Intende dire che non ha mai concepito il suo lavoro come un servizio alle variabili della marginalità e del fatturato. Quello che aveva in mente era il “progetto”. È uno dei protagonisti della storia digitale italiana, ha costruito imprese che sono andate lontano ma, in fondo, è sempre rimasto un architetto. Nel 1994 ha co-fondato Dada, acronimo di Design Architettura Digitale Analogico, divenuta una delle prime multinazionali italiane della rete: connettività, servizi, il portale Supereva, musica, comunità, la quotazione in Borsa nel 2000. «Pensavamo che molte persone avrebbero abitato la rete e dovevamo costruire gli ambienti nei quali avrebbero vissuto». Nel 2012 ha co-fondato NanaBianca. In parte è un acceleratore che aiuta a crescere startup nelle quali ha una piccola quota. In parte fa progetti col suo Startup Studio: concepisce i business, trova i team, crea le imprese per realizzarli e mantiene una quota elevata. «In tutte queste attività il punto chiave è il progetto. Devi trovare tutti gli strumenti che servono per realizzarlo. Compresa la tecnologia. Compreso il capitale, il fatturato e il profitto». Instilla nelle sue startup questa mentalità: perché è un connotato fondamentale del lavoro del futuro.
«Da studente di architettura, sul finire degli anni Ottanta, usavo computer che non riuscivano a elaborare immagini pesanti e mi sono dovuto arrangiare a creare delle reti per aumentare la capacità di calcolo. Non ero un tecnico: avevo un problema e ho cercato una soluzione. Oggi i mezzi sono più potenti: ma a fare la differenza sono sempre gli autori di progetti che sanno combinare i mezzi che servono a realizzarli». Un approccio che vale a ogni livello professionale. «Internet non è più quella di prima. Include molte più persone». Ma non c’è una scuola per imparare le piattaforme. «Quando arrivano in azienda i neolaureati sono molto teorici e hanno in mente strumenti antichi. Sono chiamati a calare la teoria in una pratica orientata ai risultati, interdisciplinare, con strumenti che evolvono». Una volta, ricorda Barberis, occorreva qualcuno che si occupasse dei server: oggi si sceglie un servizio in cloud e lo si impara usandolo. Una volta la produzione richiedeva una gerarchia di controlli: oggi si gestiscono le assunzioni, le squadre di lavoro, i meeting, usando le piattaforme, da Slack a Trello. Una volta avevi dei programmatori per la reportistica: oggi ci sono ottimi software pronti. Le relazioni con i clienti si sviluppano su piattaforme che gestiscono insieme tutti i canali, dalla messaggistica ai social, dalla pubblicità ai “chat bot”. L’interfaccia dei prodotti non è più una ruota da reinventare ogni volta: ci sono template da personalizzare. «Sono tutte conoscenze che si imparano sul campo e costituiscono la struttura essenziale dell’azienda». E dunque che cosa fa la differenza? «Questi strumenti liberano spazio progettuale, danno ordine e rigore allo svolgimento del progetto, consentono di lavorare a un livello sofisticato, rendono la vita più comoda ma sfidano ad andare più veloce, preparando l’organizzazione alla competizione internazionale. Non si torna indietro. Chi fa la differenza? Chi impara a usare tutto questo benissimo per concentrarsi sul progetto che accomuna l’imprenditore e tutti coloro che lavorano con lui».
Le imprese più avanzate sono così. Squadre che realizzano progetti. Ma le altre imprese ci arriveranno. Dice Gartner che per il 2020, gli algoritmi e le piattaforme cambieranno i comportamenti di oltre un miliardo di lavoratori. «I responsabili dei progetti digitali delle aziende dovranno abilitare i modi più efficaci di lavorare preparando le organizzazioni a sfruttare le prossime ondate di innovazione senza dover reinventare continuamente l’azienda». Nelle startup come quelle descritte da Barberis questo è il presente. Per le aziende meno avanzate è una prospettiva molto vicina.
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