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Dossier Dagli ecosistemi più posti e maggiore integrazione

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    Dossier | N. 13 articoliIl lavoro del futuro

    Dagli ecosistemi più posti e maggiore integrazione

    In un quarto di secolo, le Ferrovie sono passate da circa 220mila a 74.200 occupati. I pc e le macchine automatizzate hanno spiazzato una quantità di posti di lavoro, rendendone alcuni obsoleti.

    L’azienda, però, nel frattempo ha acquisito una notevole capacità di generare profitto. E alla fine ha ricominciato ad assumere: 2.300 persone l’anno scorso, circa 3mila quest’anno. E secondo la classifica compilata da Cesop, Fs Italiane è il “Best employer of choice” 2017, 2016 e 2015 per i neolaureati italiani: era quindicesima nel 2009. Un notevole cambio di prospettiva: le Ferrovie hanno espulso manodopera per decenni, esemplificando la classica grande azienda che ristruttura e sostituisce umani con macchine; ma, nel corso del processo, si sono adeguate alla trasformazione più generale del contesto, sia tecnologico che economico, e ora sembrano esemplificare invece una strada per scoprire il lavoro del futuro.

    Per comprendere questo ruolo si può partire dalle dichiarazioni di Renato Mazzoncini, amministratore delegato e direttore generale del Gruppo FS Italiane: «Essere di nuovo primi nel gradimento dei giovani neolaureati ci rende estremamente orgogliosi. Il contributo dei giovani può costruire nuovo valore per l’azienda, permettendoci di offrire ai clienti servizi sempre più qualificati, in grado di migliorare concretamente la vita quotidiana di tutti. Per questo è necessario individuare non solo persone eccellenti dal punto di vista curriculare, ma soprattutto appassionate al grande progetto di cambiamento che stiamo portando avanti per il Paese». Anche per Mazzoncini, dunque, c’è una stretta relazione tra il “progetto” dell’azienda e l’attrazione dei talenti, tra il successo dell’impresa e quello dei suoi collaboratori.

    Ma come si valutano queste opinioni dal punto di vista della creazione di posti di lavoro? È possibile che diminuisca l’occupazione diretta di una grande azienda ma che la sua azione alimenti indirettamente un aumento dell’occupazione? Questo avviene se l’azienda pensa in termini di ecosistema e contribuisce in modo decisivo al suo sviluppo, dal punto di vista tecnologico o economico. Per Mazzoncini il ruolo di Fs Italiane deve cambiare proprio in questo senso: «Attualmente, la nostra azienda offre la stragrande maggior parte del servizio di trasporto ferroviario in Italia, ma questo equivale soltanto al 5,2% della mobilità». In effetti, l’80% degli spostamenti è effettuato nella logica dell’autoconsumo, visto che il servizio di guida dell’auto privata è prodotto dai consumatori stessi. «È un sistema inefficiente. Se riusciremo a offrire servizi di mobilità più comodi ed efficienti dell’auto privata il nostro mercato crescerà e con esso l’occupazione complessiva nell’ecosistema». Secondo una ricerca di Ambrosetti e Ferrovie, ottimizzando la mobilità nelle 14 Città metropolitane italiane, si otterrebbero risparmi di tempo, miglioramento dell’ambiente e della sicurezza con un vantaggio economico dell’ordine dei 12 miliardi l’anno. Un risultato che si può ottenere ridisegnando e ricostruendo, nel corso dei prossimi cinque anni, le infrastrutture di trasporto pubblico urbano. «Le Ferrovie si candidano a essere la spina dorsale di questa ristrutturazione. Che potrà riuscire se insieme all’efficientamento ci sarà innovazione. La lunghezza del viaggio dei cittadini - dal punto di partenza alla destinazione finale, “door to door” - dipende dall’anello più debole della catena. Solo se le grandi aziende riconoscono e valorizzano il contributo delle startup che trovano soluzioni anche radicalmente innovative per risolvere i problemi, l’ecosistema nel suo complesso migliora davvero». Ci si possono aspettare interessanti risultati da un sistema pensato per integrare modalità diverse di spostamento, servizi ai nodi di passaggio da un mezzo all’altro, innovazioni radicali nelle tecnologie e nelle mentalità: le auto elettriche e le bici condivise danno un’idea della portata delle novità, in attesa delle - per ora soltanto ipotizzate - utility di auto a guida autonoma. Il ministero dei Trasporti italiano ha organizzato quest’anno il programma Nice to Meet You, una raccolta di idee per la mobilità del futuro, con la collaborazione di ItaliaCamp: la varietà di forme e soluzioni promessa dall’innovazione emergente, in effetti, mostra che l’idea di un ecosistema della mobilità con occupazione complessiva crescente che sostituisce in parte la quota preponderante dell’autoconsumo può essere realistica.

    È un approccio che ha una storia di tutto rispetto. In fondo, è quello che hanno sempre fatto le grandi aziende della tecnologia digitale. «Per ogni dollaro di nostra tecnologia» dice Silvia Candiani, amministratore delegato della Microsoft in Italia «altri dieci dollari sono prodotti dai nostri partner e sviluppatori. Noi siamo il volàno di un ecosistema di imprese innovative. E cresciamo insieme a loro. L’azienda monolitica che fa tutto da sola è sempre più difficile». Il ruolo di volàno viene sviluppato con una quantità di iniziative, formative, finanziarie, organizzative. E a ogni grande salto tecnologico diventa più complesso. Oggi il tema è l’intelligenza artificiale e le sue applicazioni al business. Con le conseguenti preoccupazioni per il lavoro che rischia di sparire. «Di fronte alle grandi innovazioni è facile vedere quello che perdiamo» commenta Candiani «è più difficile immaginare quello che ancora non c’è. Anche per noi che ci riconfiguriamo costantemente insieme all’ecosistema. Comunque la nostra interpretazione dell’intelligenza artificiale è chiara: non è fatta per sostituire gli umani, ma per fornire agli umani dei superpoteri. Anche agli umani che fondano startup. Ci sono 600mila sviluppatori nel mondo che usano i nostri servizi cognitivi per creare nuovi prodotti».

    Ma tutto questo si traduce in vere prospettive di lavoro se effettivamente viene compreso profondamente nella cultura economica della società che, quindi, si organizza di conseguenza. Il che richiede non solo un salto di approccio ma anche un’innovazione strutturale nella formazione e una diffusa, capillare informazione sulle opportunità emergenti. «È il mantra di Satya Nadella, il ceo della Microsoft» ricorda Candiani: «Dobbiamo coltivare la mentalità di chi vuole imparare. Ogni giorno. Da ogni esperienza».

    Questo approccio si può generalizzare, riflettendo su come si concepisce teoricamente il lavoro del futuro. Ormai è chiaro che questa inchiesta a puntate sta conducendo a scoprire che nel concetto di lavoro del futuro è compreso sia l’atto di lavorare e dunque generare un reddito, sia l’atto di imparare e dunque generare un miglioramento delle capacità di lavorare. E del resto si scopre anche che le soluzioni non emergono dall’opera della somma delle singole aziende e organizzazioni ma dall’insieme vagamente coordinato delle strutture che operano nell’ecosistema. Per migliorare il sistema di precondizioni che favoriscono la conquista di nuovi spazi di sviluppo economico valgono le attività che in molti, comprese le Ferrovie e la Microsoft, stanno conducendo all’insegna dei format di “open innovation”, dalle hackathon al corporate venture capital e a tutto quanto emerso dopo l’invenzione del concetto da parte di Henry Chesbrough. Ma occorre aggiungere anche un punto di vista orientato al lavoro emergente. Come si concepisce da questo punto di vista un ecosistema sano, ricco e sostenibile? L’approccio suggerito dalla Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, il cui rapporto annuale 2017 è uscito pochi giorni fa, sottolinea come le risposte dipendano da quanto si riesce a tener conto, oltre che del capitale finanziario, anche del capitale umano, sociale e naturale. Non c’è sostenibilità se un sistema economico consuma più capitale di quanto ne rigeneri. E questo vale anche per il capitale umano.

    Il concetto è stato introdotto da Gary Becker, economista premio Nobel. In sintesi, il capitale umano è l’insieme di qualità e abilità che rendono le persone produttive. Becker parla di cultura e conoscenze, ma anche di valori più «minimalisti» come il senso della puntualità, lo stato di salute. E quindi l’investimento in capitale umano si riferisce all’istruzione ma anche alla dieta sana e ai valori della buona educazione. Non solo. Si può immaginare anche che l’esperienza di una persona che lavora possa generare un reddito ma anche uno “human capital gain”. Un concetto vagamente “metaforico” che ovviamente allude a un possibile vantaggio che le persone possono ottenere lavorando non soltanto per un reddito ma anche per una sorta di accumulazione di esperienza, riconosciuta dal contesto come generativa di valore. Se questo punto di vista ha senso, le aziende e i lavoratori hanno bisogno di guardare al futuro costruendo una prospettiva comune.

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