Come la maggioranza degli economisti, sono stato felice di vedere Richard Thaler ricevere il premio Nobel. Chi ha un pizzico di buon senso sa bene che le persone non sono perfettamente razionali. Ma il presupposto di razionalità gioca ancora un ruolo troppo importante nel nostro campo. E Thaler non ha semplicemente documentato deviazioni dalla razionalità, ha dimostrato che ci sono schemi coerenti e utilizzabili in queste deviazioni.
La domanda, però, è quanto conti questa scoperta per la nostra professione. E qui le opinioni si dividono: uno schieramento dice che la razionalità imperfetta cambia tutto, l’altro afferma che il presupposto di razionalità resta lo strumento migliore, o quantomeno fissa una base di riferimento da cui discostarsi solo per ben motivate ragioni.
Chi ha ragione? La mia considerazione è che dipende dal campo di studi. Prendiamo la macroeconomia, che credo di conoscere piuttosto bene, e la finanza, dove sono molto meno informato. La cosa che mi colpisce è che in uno dei due casi applicare vagamente i ragionamenti thaleriani ha un’enorme importanza, nell’altro non tanto.
Proviamo a esporre due affermazioni derivate dall’idea che le persone siano perfettamente razionali:
1. Gli investitori razionali inseriscono tutte le informazioni disponibili nei prezzi delle attività, quindi i movimenti di questi prezzi saranno determinati solo da eventi non previsti: in altre parole, seguiranno una traiettoria casuale, senza schemi ricorrenti che si possano utilizzare per fare soldi.
2. Gli individui razionali che fissano i salari e i prezzi prenderanno in considerazione tutte le informazioni disponibili al momento di fissare il prezzo della manodopera e dei beni, e ciò implica che gli shock per la domanda avranno effetti reali solo se imprevisti: in particolare, che la politica monetaria «funziona» solo se è una sorpresa, e non può giocare un ruolo stabilizzatore.
Ora, la prima affermazione corrisponde alla teoria del mercato efficiente, che quando si scende nei dettagli sappiamo essere sbagliata. Nella finanza internazionale, per esempio, c’è il ben noto rompicapo della parità scoperta dei tassi di interesse: le differenze tra i tassi di interesse nazionali dovrebbero essere predittori delle variazioni dei tassi di cambio, ma in realtà non hanno potere predittivo. E chi credeva che la razionalità degli investitori precludesse distorsioni dei prezzi colossali ha avuto un decennio complicato.
Ma l’affermazione più generale che i movimenti dei prezzi delle attività sono imprevedibili, che gli schemi ricorrenti sono astrusi, instabili e difficilmente utilizzabili per farci soldi, sembra essere corretta. Nel complesso, mi sembra che tener conto delle implicazioni del comportamento razionale faccia più bene che male nel campo della finanza.
E per quanto riguarda la seconda affermazione? Qui entra in gioco l’economista Robert Lucas, che cerca di razionalizzare i fatti osservati dei cicli economici con un comportamento perfettamente razionale di fronte a un’informazione imperfetta. Questo approccio ha avuto un’influenza smisurata sulla professione macroeconomica. Ma ha infilato il settore in un labirinto senza uscita. La determinazione dei salari e dei prezzi non riflette le migliori informazioni disponibili sulle politiche monetarie future.
Insomma, la razionalità è una bugia. Ma in alcune aree dell’economia sembra essere una bugia a fin di bene, utile come guida per ragionare se non la si prende troppo sul serio. In altre aree, invece, è soltanto un disastro.
Mi vengono in mente alcune ragioni. Gli investitori intelligenti possono fare arbitraggio sfruttando l’irrazionalità degli altri. Un equivalente nel mercato del lavoro e in quello dei beni non esiste. Ma l’applicabilità disomogenea delle teorie comportamentali è un tema che merita ulteriori ricerche.
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