«Economics is what economists do». Così l’economista americano Jacob Viner definiva la scienza economica negli anni 30. Pochi decenni prima, il suo collega italiano Maffeo Pantaleoni aveva scritto che «in economia esistono soltanto due scuole: quelli che la sanno e quelli che non la sanno». Pur esprimendo due visioni diverse del mestiere, Viner e Pantaleoni avevano, a modo loro, entrambi ragione.
L’economia fin dal suo inizio è stata una scienza plurale e pluralista. Anche se ogni generazione ha avuto il suo mainstream, il suo pensiero normale, sono comunque stati sempre molti i torrenti e i ruscelli che scorrevano accanto al corso principale - alcuni avevano alvei paralleli, altri lunghi tratti carsici. La situazione attuale non è molto diversa. Soprattutto negli ultimi due decenni, si è aperta una stagione autenticamente pluralista, dove gli economisti si occupano veramente di molte cose diverse, scrivono insieme a psicologi, sociologi, neuroscienziati, biologi.
Al tempo stesso, questo pluralismo incontra dei problemi concreti molto seri e in genere sottovalutati. È, infatti, sempre più forte ed efficace una nuova forma di imperialismo. È quella dei «top-journals», cioè quelle poche riviste scientifiche internazionali che hanno, di fatto, in mano il destino accademico soprattutto dei giovani. Puoi scrivere (quasi) quello che vuoi, ma se non li pubblichi in riviste che la disciplina considera eccellenti o quanto meno buone, le cose che scrivi non hanno alcun impatto e non ti consentono di accedere alle università e nei centri di ricerca migliori. Oggi dovremmo rettificare quelle due celebri frasi di Viner e Pantaleoni, e dire: «L’economia è quello che gli economisti fanno, e che riescono a pubblicare nelle riviste giuste», e che “quelli che la sanno” devono diventare “quelli che sanno pubblicarla”, convincendo i pochissimi editors che contano (e i loro referees).
Tutto ciò ha poi importanti ripercussioni anche nella formazione dei giovani economisti. Nei dottorati e Ph.D., che sono il principale vivaio dei nuovi economisti, ai giovani viene fortemente consigliato di specializzarsi in un tema di ricerca che con maggiore facilità li condurrà a pubblicare presto e “bene”, cioè sulle riviste che contano davvero. Così si concentrano per tre e più anni su un modello o su un fenomeno, per poter massimizzare la probabilità di avere almeno una buona pubblicazione nelle riviste che contano, e così iniziare una buona carriera. Ma in tutti i processi di buona formazione per apprendere un mestiere vero, presto e bene non stanno facilmente assieme. Presto si accompagna a frettoloso, approssimativo, superficiale, e Bene a profondità, maturazione, rigore.
Che cosa sta accadendo allora nei nostri dottorati di economia? In primo luogo, un giovane bravo e con vocazione alla ricerca, fa spesso molta fatica a seguire la propria vocazione scientifica, perché è l’output finale che determina la scelta iniziale. Se, ad esempio, qualcuno arriva in un dottorato con una autentica passione per le questioni metodologiche o filosofiche, se decide di sviluppare un progetto di ricerca su «Economics and Philosophy», ha pochissime possibilità trovare domani un lavoro in un dipartimento di scienze economiche, dove si troverà a competere con colleghi con “prodotti” con fattore d’impatto molto maggiore. E anche se pubblicherà un articolo nella rivista migliore di quel settore marginale, sarà sempre una rivista non considerata eccellente dalla disciplina economica. E così succede che questi giovani con vocazioni particolari, rare e quindi preziose per la mantenere e sviluppare la biodiversità nella scienza, vengono fortemente consigliati di “mettere da parte” la loro arte, e pensare a cose più serie e utili. Questo è lo scenario di questi ultimi anni, che, tra l’altro, sta facendo fuoriuscire molti giovani eccellenti dall’economia verso altre discipline con più pluralismo - o li fa emigrare in Paesi come l’Uk e l’Olanda, dove ancora qualche spazio libero resta.
Inoltre, per questi stessi motivi, nella formazione dei giovani economisti sono di fatto inesistenti elementi di storia, di filosofia, di humanities, e il dialogo con altre discipline è scoraggiato - per non parlare dei programmi degli attuali corsi triennali e magistrali di economia: quel che c’era di diritto pubblico e di storia nella vecchia laurea in Economia e commercio, è stato cancellato per lasciare spazio a tecniche più utili. Peccato che le discipline umanistiche sono molto “utili” per coltivare domande nuove e per sviluppare la creatività dei giovani. «Un economista che è solo economista è un cattivo economista», dicevano Marshall e Pareto. E così quando il futuro economista farà il docente, o darà consigli per scelte che riguardano la vita di tutti, si ritroverà con un bagaglio culturale troppo piccolo, e con una mono-coltura poco fertile.
La crisi di reputazione e di rilevanza che sta conoscendo da anni il mestiere dell’economista teorico, dipende anche dalla sterilità e ripetitività delle nostre domande di ricerca, che richiederebbero più aria aperta e libera, soprattutto negli anni cruciali della formazione: «Economic theorists may have to become as much philosophers as mathematicians», diceva nel 1991 Robert Sugden, un economista che ha saputo innovare in economia anche perché studioso di storia, di psicologia, di filosofia. Credo che i nuovi Keynes, Schumpeter, Sen non si stanno formando oggi in un PhD in Economics, ma staranno crescendo in ambienti culturali con più libertà e promiscuità generativa. Se vogliamo attrarre giovani con alta creatività e veramente innovativi, dobbiamo rivedere profondamente i contenuti e la durata della formazione dei nuovi economisti.
Dare loro più tempo e più respiro, e anche più speranze concrete di poter pubblicare bene i loro lavori diversamente eccellenti.
Luigino Bruni è professore ordinario di Economia politica alla Lumsa di Roma
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