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Dossier L’utilità di complicare il nostro quadro

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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    L’utilità di complicare il nostro quadro

    (Agf)
    (Agf)

    Quando ancora facevo il mio PhD, una quindicina di anni fa, discussi alcune parti della mia ricerca con un economista molto famoso, le cui posizioni affrontavo in maniera critica nel mio lavoro. Lui mi fece alcune critiche bonarie e mi diede anche qualche suggerimento, tra cui quello di cambiare al più presto ambito di studi; quello su cui mi ero concentrato, l’economia comportamentale, era infatti, secondo lui, un vicolo cieco senza futuro. Nel frattempo, nei pochi anni intercorsi dopo quel colloquio, varie volte il premio Nobel per l’economia è stato assegnato a studiosi provenienti dal quell’ambito: Kanheman, Shiller, quest’anno Thaler, senza contare la Ostrom e Akerlof che potrebbero essere facilmente ricondotti, anche loro, nell’alveo dei behavioral economists.

    Sappiamo bene che l’assegnazione del premio Nobel ha un forte “effetto segnalazione” nei confronti della professione economica, questi numeri stanno ad indicare che l’approccio comportamentale ormai non può più essere considerato eretico e in contrapposizione al pensiero unico tradizionale, quanto piuttosto uno degli approcci possibili nell’ambito di una disciplina che sempre più si allontana dall’ideale settecentesco della meccanica razionale, per diventare, almeno dal punto di vista metodologico, più pluralista ed ecumenica.

    Il contrasto tra approcci differenti, pure esistente, non si gioca tanto sull’impianto metodologico, quanto sulla capacità di spiegare il mondo. In questo senso si capisce come da sempre l’alleato più prezioso dell’approccio comportamentale sia stata l’economia sperimentale, ma anche la psicologia, l’antropologia e le neuroscienze.

    Le virtù e i limiti dei diversi approcci andrebbero quindi valutati alla prova dei fatti, e qui l’economia comportamentale, sia pure con molti limiti, ha avuto il grande merito di aver aperto la strada alla costruzione di un modello di agente molto più complesso e realistico di quello tradizionale. Il quadro è venuto ad arricchirsi, per esempio, con quelle che vengono definite “preferenze sociali”, reciprocità, fiducia, gratuità, equità, tutti moventi delle azioni economiche difficili da ricomprendere sotto la categoria dell’self-interest, abitualmente usata nel modello neoclassico. Sono entrate poi in gioco tutte le limitazioni e le distorsioni cognitive; i problemi con le valutazioni probabilistiche, con la rappresentazione dell’informazione, senza parlare poi dei nostri problemi con il tempo, con la procrastinazione e le incoerenze temporali. Il rimpianto, il senso di colpa, la vergogna, l’orgoglio e altre simili emozioni sociali, sono uscite dagli studi degli psicanalisti per essere anch’esse incorporate oggi nei più sofisticati modelli di teoria dei giochi.

    È certamente corretto continuare a insegnare i vecchi modelli, ma presentandoli come casi-limite, giusto prima di complicare il quadro, aggiungendo profondità e realismo. Questa posizione è stata recentemente criticata come una futile rincorsa alla realtà; come quella degli astronomi tolemaici che per spiegare osservazioni sempre più accurate del moto dei corpi celesti aggiungevano epicicli su epicicli costruendo teorie ineleganti e inutilmente complicate. Ma questa critica non coglie nel segno, sia perché l’economia non può essere paragonata alla fisica, sia perché la posta in gioco è molto differente. Se in fisica usiamo infatti il modello sbagliato per descrivere parte della realtà, il mondo continuerà a funzionare come sempre, in barba al modello sbagliato. Se in economia usiamo un modello sbagliato questo avrà ripercussioni sulla stessa realtà che dovrebbe descrivere. Come sostiene infatti Robert Gibbons, nel caso specifico dei modelli manageriali: «una delle possibilità è che i modelli economici che ignorano gli aspetti psicologici e sociali possano essere delle descrizioni incomplete del funzionamento degli incentivi nelle organizzazioni. Una seconda, più allarmante possibilità, è che pratiche di management basate su tali modelli possano danneggiare e perfino distruggere realtà non economiche importanti come le motivazioni intrinseche e le relazioni sociali».

    Una visione economica incapace di riconoscere tratti fondamentali della natura umana porterà alla loro erosione. Un’ultima nota, importante, a controbilanciare la grande dipendenza intellettuale degli economisti italiani dall’approccio, dai temi e dalle mode nordamericane, fa riferimento al fatto che molte delle questioni riportate al centro del dibattito dai Nobel comportamentali, apparivano già, naturalmente in forme differenti, nel dibattito economico italiano sul finire del XVIII secolo. Genovesi, Filangeri, Dragonetti e altri esponenti della scuola dell’economia civile italiana, certo non possedevano gli strumenti formali odierni – neanche Smith e Ricardo del resto – ma certo avevano un’idea di mercato e di agente economico molto più vicina a quella dell’economia comportamentale che non a quella neoclassica. Sarebbe ora che tale tradizione venisse rivalutata, come oggi cercano di fare molti studiosi raccolti intorno alla Scuola di Economia Civile, con umiltà, consapevolezza e un certo grado di lungimiranza.

    Vittorio Pelligra, PhD Department of Economics and Business University of Cagliari & BERG Behavioural Economics Research Group

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