Gli studi sui limiti cognitivi del comportamento umano in campo economico, per cui Richard Thaler ha ricevuto il premio Nobel per l’economia, si inscrivono in un ricco filone di ricerche che da tempo tentano di allentare e/o di superare alcune aporie del paradigma neoclassico, racchiuse nella presupposizione dell’homo oeconomicus, atomo isolato, autointeressato e massimizzante. Il forte apprezzamento per questo filone mi porta a chiedermi se da esso possiamo trarre, insieme e oltre a una problematizzazione della “illimitatezza razionale” che guiderebbe la umana condotta economica, qualcosa di più, in merito alla possibilità rimettere in discussione la stessa categoria di “razionalità strumentale” e di adottare visioni più articolate e complesse degli attori, individuali e sociali.
Infatti, nella nozione di agente dell’ortodossia economica – non un soggetto ma un mero suffisso della funzione di utilità, uno statistico eccezionale però passivizzato e automatizzato, una macchina calcolatrice che massimizza mezzi dati rispetto a fini dati senza interrogarsi né sui mezzi né sui fini, uno “sciocco razionale” che si comporta come un “idiota sociale” – si esprime un riduzionismo che non soltanto ignora la “distintività” e l’”autonomia” di quell’individuo che pretende di porre a base della propria analisi, ma è anche del tutto disinteressato alla ”integrità” dell’individuo stesso. Amartya Sen già nel 1977 diceva: «Se le persone sono viste soltanto come passive localizzazioni delle rispettive utilità, esse non contano come individui più dei singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale del petrolio». Con ciò, però, l’economia da un lato espelle i fini dall’ambito del razionalmente indagabile, dall’altro si sottrae all’impatto fecondo con alcune delle tensioni costitutive della modernità – basti pensare a Rousseau e al sentimentalismo morale scozzese in cui spicca Adam Smith – da cui essa stessa è nata, tensioni che attengono alla soggettività, l’autonomia, l’autenticità, il rapporto tra individuo e collettività, le relazioni.
L’estremizzazione che di tutto ciò ha fatto il neoliberismo – sfociato nella “crisi permanente” innescata nel 2007/2008 – è significativa. Lo svuotamento emotivo dell’agente, la sua passivizzazione, la sua mutilazione in termini di intersoggettività e di intercomunicatività si traducono nella negazione della sua stessa soggettività e autonomia e nella compromissione della possibilità di pensarne un’attività politica e una vita associata. La desoggettivazione si lega all’affermazione di una razionalità solo strumentale, la quale, mentre estromette i fini dalla tematizzazione razionale, si ispira soltanto ai due elementi della massimizzazione e dell’autointeresse. L’impoverimento del soggetto e la torsione razionalistico-strumentale hanno contraccolpi forti sullo stesso tessuto democratico e sulla qualità della “sfera pubblica”, deteriorati dalla crescente invasione di tutte le dimensioni del vivere da parte dell’”economico” e dal dominio progressivo dell’economia sulla politica.
I soggetti in carne e ossa, però, continuano la intensa ricerca del tutto ignorata nell’economia mainstream: quella di un equilibrio tra bisogni individuali e collettività, motivazioni autointeressate e motivazioni sociali, autoconsiderazione e cura degli altri, sfera privata e sfera pubblica. Questa fondamentale forma di “autoriflessività” che caratterizza tutta la modernità, secondo l’insegnamento di Habermas, rimane persistentemente assente nell’economia standard, la quale esamina le microfondazioni della macroeconomia ma non le macrofondazioni della microeconomia e, quindi, esalta il dispositivo atomistico dell’homo oeconomicus operante anche nella categorizzazione dell’”agente rappresentativo”, tratta le preferenze come manna che cade dal cielo su di un individuo con gusti fissi e aspettative salde, ignora le interazioni circolari e cumulative tra i valori, le credenze, le percezioni degli individui e quelli prevalenti a livello sociale, interazioni invece fondamentali tanto per le decisioni economiche di risparmio, di consumo, di lavoro, di uso del tempo, quanto, e ancor più, per i più complessi processi di identità e di soggettivazione, individuali e collettivi.
Ma poiché i comportamenti degli individui possono essere sia pro-social, sia self-interested e le preferenze si formano anche in base a considerazioni e moventi sociali – per esempio in termini di equità, giustizia, diseguaglianza tollerabile e così vi a – che possono essere rafforzati o sminuiti, ignorare tutto ciò vuol dire porre le premesse per l’adozione di politiche indifferenti rispetto a tali esiti o che addirittura, invece di incoraggiare le motivazioni prosociali, le scoraggiano, rafforzando l’attitudine alla razionalità utilitaristica e strumentale e al comportamento autocentrato e autointeressato. Il che è esattamente quanto è avvenuto con il neoliberismo, che non è stato solo un processo di trasformazione economica, ma ha anche esercitato una profonda influenza sulle soggettività, l’antropologia, i desideri, l’immaginazione, il modo di concepire la libertà.
Per tutte queste ragioni è indifferibile la necessità di lavorare per cornici interpretative complessive radicalmente alternative, con le quali criticare la pretesa avalutatività dell’economia standard e ricongiungere etica ed economia, tornando a considerare l’economia come “scienza morale e sociale” e dunque “scienza dei fini” – nei termini indicati da grandi pensatori come Keynes e Hirschman – e quindi prendendo anche le distanze da una visione dell’economia come “scienza della natura” e dalla matematizzazione assoluta che ne discende.
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