I diritti di 90mila acquirenti di vari modelli del gruppo Volkswagen coinvolti nel dieselgate sono abbastanza omogenei per legittimare una class action. E altre questioni sollevate dall’azienda, tra cui il ricorso pendente al Tar Lazio contro le sanzioni comminate dall’Antitrust e la confutazione che lo scandalo influisca sulle quotazioni dell’usato (a sua volta confutata dai giudici), non contano in sede di valutazione di ammissibilità della class action: basta una delibazione sommaria. Perciò la Corte d’appello di Venezia (ordinanza 2966/2017, depositata ieri) ha confermato il decreto del Tribunale, che aveva dichiarato ammissibile la procedura promossa da Altroconsumo contro la Volkswagen per il dieselgate (si veda Il Sole 24 Ore del 26 maggio).
Sull’omogeneità dei diritti, l’azienda eccepiva che non basta che essi derivino dalla stessa condotta illecita: essa avrebbe influito in modo diverso sulle decisioni di acquisto di ciascun cliente. La Corte risponde che l’omogeneità nasce «da un identico fatto costitutivo, seppur plurioffensivo» e che le questioni da risolvere nella fase di merito per accertare il diritto sono «sostanzialmente le medesime» per ogni cliente. Il diritto nasce dalla stessa pratica commerciale ingannevole (l’adozione di software truccati) attuata su «una serie di automobili del gruppo». Il processo decisionale degli acquirenti è ritenuto irrilevante, perché non attiene né all’accertamento della pratica scorretta né al nesso di causalità tra essa e il danno di cui si chiede il risarcimento.
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