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Dossier Le ragioni delle scelte irrazionali

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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    Le ragioni delle scelte irrazionali

    Sosterrò due tesi sul rapporto tra l’economia, che conosco da dilettante, e la psicologia, di cui sono specialista. Credo, in primo luogo, che l’economia sia una disciplina più aperta della psicologia ai quesiti innescati dal confronto con le scienze confinanti e quindi non dobbiamo stupirci se è diventata la regina delle scienze sociali (Francesco Trebbi, 17 ottobre, dibattito). Ho incontrato spesso economisti informati sui nuovi paradigmi sperimentali della mia disciplina mentre i colleghi, soprattutto in Italia, raramente sono interessati ai meccanismi della decisione e dell’azione economica, un aspetto cruciale della contemporaneità. La seconda tesi è che l’enfasi sulla razionalità, e soprattutto sugli scarti dei comportamenti effettivi rispetto a un canone astratto, non coincide con il punto di vista degli psicologi e può rendere meno produttivo lo scambio tra i due fronti.

    Per quanto concerne il primo punto, l’esempio classico è l’intuizione di Ronald Coase così formulata il 10 ottobre del 1932 in una lettera all’amico Fowler: «Se ci fosse concorrenza atomistica, se cioè ogni transazione che implica l’uso del lavoro altrui, di materiali o di denaro fosse oggetto di una transazione di mercato, non ci sarebbe bisogno di alcuna organizzazione... mi sono poi chiesto perché, se i costi diminuiscono eliminando le transazioni di mercato, continuano a esserci transazioni di mercato? Ho quindi concluso che obiettivo dell’organizzazione è: a) riprodurre all’interno dell’unità imprenditoriale la distribuzione di fattori che si ottiene con la concorrenza atomistica; b) fare questo a un costo inferiore rispetto a quello delle transazioni di mercato che vengono in tal modo sostituite».

    Fino allora nessuno si era interrogato sulle diverse dimensioni delle aziende e sul perché alcune mansioni siano svolte da dipendenti e altre no. Solo molto più tardi gli psicologi spiegarono in dettaglio la natura dei costi di transazione, e cioè i limiti di risorse di attenzione e memoria, di capacità di pensiero, e, infine le difficoltà nel stringere accordi e rispettarli. Questi limiti, che oggi conosciamo bene grazie a una serie di esperimenti, vanno a formare quegli attriti che frenano la “concorrenza atomistica” e determinano in vari modi i costi di transazione, eliminati in gran parte all’interno di una struttura gerarchica. Oggi un economista aziendale è bene che abbia le competenze psicologiche per analizzare tali attriti.

    Facciamo ora un salto in avanti e veniamo al premio Nobel di quest’anno, Richard Thaler. Nel 1991 egli chiede (insieme a Kahneman e Knetsch) di valutare il valore di una comune tazza di ceramica (qualsiasi oggetto va bene: io ho replicato la prova con sveglie di poco prezzo). Subito dopo a metà dei partecipanti all’esperimento viene regalata la tazza, mentre all’altra metà gli sperimentatori regalano il contante corrispondente alla stima. Quando si chiede a chi ha appena ricevuto la tazza se vuole scambiarla con i soldi della sua stima accettano in pochi. Molti meno di quanti non acquistino la tazza con i soldi regalati. E tuttavia il dilemma è lo stesso per tutti: se uscire dall’aula con una tazza o con i soldi corrispondenti al valore stimato della tazza. Per indurre a restituire la tazza ci vogliono molti più soldi della stima iniziale perché la tazza ha “guadagnato qualcosa” diventando di proprietà. Questo comportamento viola il noto teorema di Coase. Eppure Coase, nel suo articolo del 1960, aveva ribadito che l’assenza di costi di transazione era un assunto poco realistico, come ricorda lo stesso Thaler che si stupisce del fatto che ci vollero trent’anni per dimostrarlo sperimentalmente. Questa scoperta dell’asimmetria tra gioia per l’acquisizione di un bene e il maggiore dolore per la perdita di quello stesso bene ha grandi conseguenze nei comportanti economici e finanziari. Gli assunti del teorema di Coase non sono analoghi alle ipotesi semplificatrici dei fisici ma a delle astrazioni ideali che talvolta ci impediscono di capire nel dettaglio il comportamento delle persone e le loro motivazioni (Francesco Sylos Labini, 18 ottobre, dibattito).

    Pascal Boyer e Michael Petersen pubblicheranno l’anno prossimo su “Behavioral and Brain Science”, la più citata rivista di psicologia, un’analisi che mostra come queste presunte violazioni della razionalità siano eredità di forme di vita adattive nei mondi passati. Ancora oggi, d’altra parte, pur non vivendo da cacciatori/raccoglitori, c’è più benessere soggettivo se una persona sopravvaluta quello che è suo, sia materialmente sia affettivamente. Ne consegue che i comportamenti presunti “irrazionali” avevano un valore in termini evoluzionistici, anche se oggi sono spesso, ma non sempre, disadattivi. Non basta quindi chiedersi quanto gli assunti di razionalità siano funzionali nei diversi campi e applicazioni dell’economia (Paul Krugman, 17 ottobre, dibattito). La mia disciplina invita a domandarsi l’origine e il senso degli scarti da quella che è definita “razionalità”.

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