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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    La fuga nella politica economica è il vero «colpevole» da processare

    Senza la teoria economica non muoveremmo un solo passo. Senza i suoi schemi logici la nostra lettura della realtà sarebbe assai più episodica e frammentaria di quanto già non sia. Senza i suoi modelli interpretativi la nostra comprensione delle cose assai meno ordinata e sistematica. E ciò, nonostante i limiti ancora indiscutibili della prima e le palesi imperfezioni e le visibili carenze dei secondi. Limiti, imperfezioni e carenze - emersi con chiarezza nel corso del dibattito sulle colonne de Il Sole 24 Ore - che sono tanto più evidenti quanto più si passa dalle pagine delle riviste accademiche ai capitoli di molti manuali per i corsi di laurea triennali. Ma non è certo ricominciando da capo che possiamo sperare di superare quei limiti e di ovviare a quelle imperfezioni e a quelle carenze. Ma, al contrario, allargando lo spazio della ricerca. Facendo della interdisciplinarietà una consuetudine piuttosto che uno svago domenicale. Estraendo dalle enormi masse di dati via via sempre più disponibili le informazioni che spesso vi sono sepolte. E abituandoci a scegliere – laicamente - fra ipotesi teoriche diverse a partire dalla situazione che abbiamo davanti. Quel che a volte ci serve è il libro impolverato in fondo allo scaffale che avevamo lasciato lì pensando di non doverne mai avere bisogno.

    In questo senso non mi è chiaro quanto sia utile un “processo all’economia”. Così come non mi è chiaro – per esempio - quanto sarebbe utile un processo alla intera scienza farmacologica per la dubbia efficacia di alcuni recenti farmaci anticancro. Se processo vogliamo che ci sia, beh allora ben più utile sarebbe un “processo alla politica economica”. Mi spiego. Un intervento di politica economica può essere spesso assimilato a una operazione chirurgica condotta nella penombra, da un chirurgo bendato, che disponga solo di un coltello da cucina, su un paziente perfettamente sveglio e anzi discretamente reattivo. I limiti ancora abbastanza evidenti delle nostre conoscenze economiche (senza le quali saremmo indifesi ma sulla cui solidità, come ho detto, è opportuno essere prudenti soprattutto quando ci si riferisce alle conoscenze di chi pratica la politica economica), la difficoltà di fare diffusamente riferimento a esperimenti di laboratorio (se non a quelli che a volte la storia ci offre), la imprecisione e spesso la rozzezza degli strumenti di cui disponiamo (disegnati per amputare un arto assai più che per liberare un’arteria senza reciderla), la capacità dei singoli di anticipare in tutto o in parte le scelte di politica economica e di comportarsi di conseguenza (vanificandone a volte anche gli effetti): tutto spingerebbe alla prudenza. Ad adottare nella condotta della politica economica un principio di parsimonia: poco e solo quando realmente necessario. E invece no. Negli ultimi dieci anni – con un atteggiamento ai limiti della schizofrenia – le decise rimostranze nei confronti dello stato della teoria economica si sono invariabilmente associate a una crescente e pressante domanda di politica economica. Come se i due aspetti della questione potessero viaggiare separati. Come se i limiti delle conoscenze teoriche non dovessero far sorgere dubbi sulla funzionalità degli strumenti di politica economica. Come se nella crisi seriale che viviamo da ormai trent’anni la politica economica – comprensibilmente dominata dall’ansia dell’emergenza ma dimentica del fatto che nel lungo periodo siamo spesso e volentieri ancora qui – non sia stata spesso decisiva nel generare i mostri che di volta in volta ci troviamo ad affrontare.

    Quanto di questa evoluzione sia attribuibile alla offerta di politica economica assai più che alla domanda della stessa è una questione cruciale da affrontare in altra sede. Ma quale che sia la risposta che diamo a questo interrogativo, nelle condizioni date il tema dei limiti alla politica economica è assai più pressante di quanto non si pensi. Come mi è stato amichevolmente (e autorevolmente) ricordato qualche tempo fa, «in democrazia alla classe politica viene dato un mandato; ed è un mandato ad agire». Benissimo, ma se in qualche misura dubitiamo del patrimonio di conoscenze che dovrebbero governare le azioni del mandatario, se non siamo del tutto certi della solidità del terreno su cui poggiano i suoi piedi, se pensiamo che del patrimonio di conoscenze disponibili abbia selezionato solo quelle meno aggiornate, se infine non siamo poi così sicuri dei suoi obiettivi, beh, allora forse sarebbe saggio circoscrivere i contenuti del mandato, condizionarlo (e, va da sé, mai darlo in esclusiva).

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