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Dossier Insegnare con approccio pragmatico

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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    Insegnare con approccio pragmatico

    Una disciplina scientifica - o quasi scientifica - come l’economia migliora la sua capacità di descrivere e prevedere la realtà grazie alla ricerca, cioè all’elaborazione e alla verifica empirica di vecchi e nuovi modelli, ma nel contempo risulta capace di illuminare i cittadini sui suoi risultati grazie alla didattica e alla divulgazione. Dunque è un’ottima cosa che Il Sole 24 Ore abbia dato vita a questo dibattito intorno all’insegnamento dell’economia, alla luce del premio Nobel per la materia, assegnato a Richard Thaler, esperto innovativo di economia e finanza comportamentale.

    L’idea alla base del progetto di ricerca di Thaler e di altri economisti comportamentali è che gli esseri umani non sono perfettamente razionali nelle loro scelte, e dunque si rischia di sbagliare le descrizioni e le previsioni ipotizzando che famiglie e imprese risolvano in maniera matematicamente precisa un problema di ottenimento del massimo della felicità e dei profitti, dati i vincoli di risorse esistenti. Intendiamoci: già con Kenneth Arrow e gli altri economisti che a partire dagli anni 60 si sono occupati di informazione, il concetto di “vincolo” include per l’appunto anche l’ammontare di informazione, che può essere limitato e asimmetrico, in quanto - come in una relazione di delega o in un contratto assicurativo - il delegato o l’assicurato sanno di più del delegante e dell’assicuratore.

    La questione posta da Thaler e dagli altri è però diversa: anche il processo di decisione stesso è condizionato da elementi più o meno emotivi che creano una distanza rispetto al paradigma della razionalità: entrano in gioco la miopia, la difficoltà nell’autocontrollarsi, la valutazione sbilenca di guadagni e perdite e tanti altri fattori rilevanti e interessanti, tali per cui solo chi non conosce l’economia può ancora definirla “scienza triste”. Un aspetto cruciale in questo tipo di ricerca è l’utilizzo frequente di esperimenti (sul campo e in laboratorio) al fine di verificare in che misura gli esseri umani si comportano in maniera diversa dal modello pienamente razionale.

    Una piccola nota personale: ho avuto il mio primo incontro serio con l’economia comportamentale mentre seguivo il corso avanzato di microeconomia alla London School of Economics nel lontano 2000/01: si trattava di un corso diviso a metà tra una parte “tradizionale” insegnata da Leonardo Felli, e una parte “comportamentale” insegnata da Matthew Rabin (allora in visita da Berkeley, ora professore a Harvard), allievo di Paul Samuelson e tra i maggiori esponenti di questa linea di ricerca: ebbene, le lezioni della seconda parte erano piene di piccoli sondaggi fatti da Rabin in classe, al fine di indagare il nostro modo di prendere decisioni in situazioni di rischio o incertezza e nell’interazione strategica con altri soggetti, e di indagare gli scostamenti più o meno sistematici dalla razionalità pura. E di scostamenti ce ne erano eccome, anche dentro un gruppo di studenti di un master in economia.

    Passiamo però a considerare le faccende italiche: come cambia e deve cambiare l’insegnamento dell’economia qui da noi, alla luce delle direzioni prese dalla ricerca? Partendo dal presupposto che i docenti della materia siano al passo coi tempi, cioè abbiamo ben presente quali siano le frontiere della ricerca oggi e non nel 1974, bisogna però resistere alla tentazione di strumentalizzare questa linea di ricerca a fini ideologici ignorando la situazione attuale dell’insegnamento dell’economia in Italia.

    Tanto per essere chiari: se in Italia sono ancora insufficienti (i) l’applicazione della matematica nell’insegnamento dell’economia, (ii) l’abitudine alla verifica empirica delle teorie e (iii) l’utilizzo di modelli con scelte puramente razionali (ad esempio in condizioni di incertezza), allora la moda dell’economia comportamentale non deve essere asservita ai seguenti scopi sgradevoli: (i) rifuggire ulteriormente dalla matematica perché i modelli “razionali” fatti con equazioni non funzionano; (ii) schifare l’uso della statistica e dell’econometria perché «tanto i modelli neoliberisti basati sulla razionalità non hanno previsto la crisi del 2008/09»; (iii) dimenticarsi che la razionalità degli esseri umani è un punto di riferimento fondamentale, anche in presenza di deviazioni “comportamentali”. Sotto questo ultimo profilo, la stessa ricerca empirica (ben riassunta da Stefano Della Vigna nel 2009 sul Journal of Economic Literature) mostra come alcuni errori di carattere comportamentale siano molto meno comuni negli “esperti” in una data area, che spesso coincidono con le imprese e non con i consumatori. Ecco dunque una ragione ulteriore per un approccio doroteo – cioè pragmatico - all’insegnamento e alla divulgazione dell’economia, che consideri sia il punto di riferimento della razionalità che le deviazioni comportamentali: studenti e cittadini lasciati a digiuno dalle scuole, dalle università e dai mass media intorno al tema della razionalità «perché tanto il modello neoliberista della razionalità è smentito dalla crisi» sono vittime perfette nella vita di tutti i giorni di chi sul mercato – razionalmente ma non elegantemente - sfrutta la loro scarsa razionalità.

    L’economia politica come «scienza dell’amor di patria» (queste le parole del Conte di Cavour utilizzate da Francesco Forte nel ricordare il ministro del bilancio Ezio Vanoni nel libro per i 400 anni del Collegio Ghislieri di Pavia) è scienza che aiuta i cittadini nelle loro scelte, non facendoli credere più razionali di quello che sono, ma nemmeno condannandoli a un eterno presente di comportamenti irrazionali.

    Riccardo Puglisi è professore associato di Economia all’Università di Pavia

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