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Dossier Perché studiare gli errori serve

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    Dossier | N. 33 articoliProcesso all’economia

    Perché studiare gli errori serve

    (Olycom)
    (Olycom)

    Verso la fine del 2007, la Federal Reserve, analisti finanziari e altri osservatori prevedevano una crescita economica positiva per l’anno successivo. Queste stime, più basse che in passato, erano comunque soddisfacenti, dopo che il crollo dei subprime nel luglio 2007 aveva fatto temere il peggio. Gli indici di incertezza dei mercati erano più elevati di qualche mese prima, ma contenuti. Con una sensazione di scampato pericolo, la nave americana e l’economia mondiale si avviavano verso un iceberg: la grande recessione. Di lì a poco, nel settembre 2008, la banca d’affari Lehman Brothers fallisce, gravata dai titoli tossici. Sui mercati scoppia il panico e il governo Usa interviene per salvare diverse banche. Crollo del credito, prezzi delle case a picco e bancarotta delle famiglie si alimentano in un circolo vizioso. Siamo nella più grande crisi economica del dopoguerra.

    Pochi avevano anticipato la gravità della situazione. Ad esempio, l’economista Raghuram Rajan in un lavoro del 2005. O alcuni avveduti investitori, che poi guadagnarono dall’esplosione della bolla. Ma gran parte degli osservatori, e con loro i mercati, avevano sottovalutato i rischi. Durante il boom del credito e dopo, nonostante i tremori dell’estate del 2007. Come chiese la Regina d’Inghilterra alla fine del 2008: «Se questi fenomeni erano così imponenti, come mai nessuno li ha visti in anticipo?»

    La risposta della finanza tradizionale è che molte crisi sono imprevedibili come certi disastri naturali, ad esempio un terremoto. Questo perché le nostre previsioni sono “razionali”, ossia fondate su una perfetta analisi dei dati. Esse possono essere sbagliate, ma il rischio dell’errore è percepito con esattezza. Se una crisi ti coglie impreparato – come nel 2008 – si tratta di un colpo di sfortuna. Recenti studi mostrano però che durante i periodi di espansione finanziaria le previsioni di operatori e famiglie sono spesso troppo ottimistiche. Forse è per colpa di questi errori di giudizio, e non solo della sfortuna, che le crisi ci colgono impreparati.

    La finanza comportamentale studia i nostri errori. Li spiega usando la psicologia, e ne analizza le implicazioni su scelte di investimento e mercati. Ad esempio, la sottovalutazione dei rischi nel 2008 può essere spiegata con la nostra tendenza a giudicare il futuro solo sulla base delle esperienze recenti, in questo caso il lungo periodo di prosperità poi conclusosi nel 2008. Un po’ come i progressi della Belle Epoque, che cento anni prima contribuirono a creare un’eccessiva fede nel Titanic, una nave considerata inaffondabile.

    La finanza comportamentale è nata circa trent’anni fa dalle critiche mosse al modello razionale dagli psicologi Daniel Kahneman (premio Nobel nel 2002) ed Amos Tversky, e si è sviluppata grazie ai lavori tra gli altri di Robert J. Shiller (Nobel 2013) e Richard Thaler (Nobel 2017). Studia le conseguenze economiche delle forze sia cognitive che emozionali che influenzano la mente umana. Questo approccio ha migliorato la nostra comprensione di importanti fenomeni quali l’instabilità finanziaria, la possibilità di prevedere i prezzi dei titoli, e gli errori che spesso commettiamo nei nostri investimenti.

    La finanza comportamentale non offre una soluzione salvifica ai problemi che identifica. Le forze psicologiche agiscono in maniera spontanea. Sono quindi difficili da correggere, e causano errori di giudizio in tutti, inclusi gli esperti e i governi. Fornisce però utili indicazioni su come contenere i nostri errori, perché ci aiuta a capire quando il nostro giudizio è piu fallibile.

    La finanza e l’economia comportamentale sono in forte espansione. Mi aspetto che questo trend si rafforzi per tre motivi. In primo luogo, la crescente disponibilità di dati sulle scelte degli individui ci permette, come mai prima, di verificare l’influenza della psicologia sulle nostre scelte. Questo sviluppo sarà utile sia alle imprese, per capire meglio le esigenze dei clienti, che ai governi, per formulare politiche piu efficaci.

    Il secondo motivo è la contemporanea crescita delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale. L’osmosi tra questi campi e l’economia comportamentale non è semplice, visto che usano ancora metodi e linguaggi diversi. Ma il comune studio dei meccanismi di decisione può essere fonte di grandi sinergie e progresso.

    Il terzo motivo è la tendenza alla democratizzazione delle scelte, con molti domini che passano dal controllo degli esperti al quello diretto degli individui. Si pensi ad esempio alla fintech, dove le decisioni individuali hanno sempre più influenza sull’allocazione del capitale. Anche l’analisi di questi fenomeni richiede un approccio aperto alla comprensione della psicologia della scelta.

    L’economia e la finanza del XX secolo hanno fatto importanti progressi nello studio dei meccanismi di mercato. Probabilmente quelle del XXI secolo dovranno concentrarsi di più sull’uomo che in quel mercato opera.

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