Il dibattito sulla razionalità in economia si è intrecciato con la capacità di spiegare la crisi finanziaria. La domanda se la dottrina economica debba aprire all’analisi del comportamento al di fuori di ciò che è considerato “razionale” ne presuppone un’altra, e cioè se gli strumenti dell’economia siano sufficienti a delimitare il comportamento razionale. Su questo, uno sguardo da chi è passato dall’economia politica alla finanza matematica può fornire un contributo originale.
La crisi dei “subprime” fornisce una misura della distanza tra razionale, secondo l’economia, e la realtà. Al 2010, le perdite da mutui “subprime” (cioè gente che non ha ripagato il mutuo), sono state 500 miliardi. Le perdite da svalutazione dei titoli sono state 4.000 miliardi. Questa la distanza da coprire: se una perdita di valore di otto volte superiore a quella osservata sia frutto di una valutazione “razionale”. Se così fosse, le perdite dei “subprime” avrebbero dovuto essere l’aperitivo prima della crisi, piuttosto che la crisi stessa. Ma è questa la distanza tra razionale e irrazionale da coprire per comprendere la realtà, oppure potremmo spostare avanti i confini di ciò che spieghiamo come “razionale”?
A prima vista, la crisi pone un interrogativo inquietante da punto di vista della razionalità: perché la crisi del credito è partita da mutui, cioè da crediti garantiti? Crediti garantiti da qualcosa non dovrebbero essere più sicuri di quelli che non sono garantiti da niente? Certo, a meno che l’opacità del prodotto non metta in discussione la garanzia. La crisi quindi non è stata una crisi di credito, ma di rischio di mercato e di trasparenza dei prezzi: è stata la crisi dei titoli “tossici”.
Peggio quindi un rischio sconosciuto, tossico, di un rischio elevato: è l’“avversione all’incertezza”. Questa paura dei rischi che non conosciamo spiega una scelta che a ogni decisore razionale sembra scontata, stare fuori dal mercato: quello che l’economia “mainstream” non spiega. Secondo i canoni dell’economia, nella crisi l’unico agente razionale sarebbe stato il governo americano che con il TARP ha ripulito il sistema finanziario di questi titoli opachi e in più oggi guadagna mano a mano che questi titoli giungono a scadenza (perché le perdite di valore di 4.000 miliardi non si sono realizzate).
Deve essere riconosciuto (cosa ignorata da molti) che il crollo dei prezzi nella crisi è stato propagato da un sistema contabile basato sulla diffidenza verso i modelli, e che in questa discussione rileva solo per il tipo di modelli economici desueti a cui è ispirato. Comunque, il comportamento dello stare fuori dal mercato è tipico dei momenti di crisi, per il carattere di incertezza che li caratterizza. L’abbiamo visto nella crisi di Enron, a dicembre 2001, quando la scoperta del fenomeno di opacità dei bilanci ha di fatto falcidiato gli scambi sul mercato azionario per mesi, fino alla definizione di nuove regole con il Sarbanes-Oaxley Act.
Il comportamento di rimanere fuori dal mercato e da qualunque altra cosa sulla quale non abbiamo informazioni sufficienti pare a tutti razionale. Ed è anche razionale ritenere che un mercato con pochi partecipanti generi un prezzo poco significativo. A questo comportamento che è razionale per l’uomo della strada fa da contrappunto il “no-trade theorem” di Milgrom-Stokey, per cui il massimo della razionalità è un mercato in cui non ci sono scambi e il prezzo è il più significativo possibile perché incarna tutta l’informazione disponibile come se fosse puro spirito, senza che la materia (gli scambi) ne intacchino la purezza. Per questa razionalità perdite di 4.000 miliardi su titoli rappresenterebbero il valore atteso di migliaia di miliardi di perdite future.
La questione della liquidità e del contenuto informativo dei prezzi di mercato non è l’unico esempio di contrapposizione tra la “razionalità” della teoria economica e ciò che ognuno di noi reputa razionale. Un altro esempio noto è la preferenza degli investitori per titoli del proprio paese. Provate a chiedere a un italiano perché investe in titoli italiani e vi risponderà che lo fa perché conosce meglio i titoli italiani di quelli stranieri.
Provate a dirgli che è irrazionale perché non diversifica il rischio e vi dirà che lo diversifica tra investimenti italiani e con una piccola quota di prodotti stranieri. E mentre questo comportamento è razionale per l’uomo della strada, compresi noi specialisti, resta un mistero, un rompicapo per la razionalità economica: è l’ “home bias puzzle”.
Il vero “puzzle” è perché questo concetto più esteso di razionalità, che risale al dibattito tra Keynes e Knight nel primo dopoguerra, non sia ancora entrato nel “mainstream” dei modelli economici, ma rimanga confinato alla periferia, oppure tra gli specialisti di teoria delle decisioni e della finanza matematica. La mia risposta, su cui dichiaro un ovvio conflitto di interessi, è che l’economia non si sia appropriata di tutto il formalismo matematico necessario a rappresentare il comportamento razionale. Ed è un insieme di strumenti complesso che va oltre la teoria della probabilità. Da questo punto di vista la scelta della multidisciplinarietà è una scorciatoia, e può diventare un’autorete. E la critica non è tanto diretta a Stoccolma (il Nobel è un concorso di bellezza per teorie, e ogni teoria ha la sua bellezza), quanto a LSE, e a quel movimento di studenti che invoca l’insegnamento inter-disciplinare dell’economia. Prima che essere inter-disciplinare, l’economia dovrebbe essere disciplinata, e cioè definire i suoi confini. Prima di affrontare il comportamento irrazionale, dovrebbe estendere gli strumenti per rappresentare fino ai suoi limiti il comportamento che ogni uomo della strada trova razionale.
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