Tra chiusura delle piattaforme di exchange e messa al bando di nuove offerte di valute digitali, per cinesi e coreani sta diventando quasi impossibile operare sui Bitcoin. Con evidenti riflessi anche sul mercato che non cercava altro che qualche pretesto per liberarsi degli eccessi del recente passato. Il Bitcoin ha lasciato sul terreno stamane il 10% in poco più di un’ora, scendendo ai livelli minimi dell’ultimo mese, finendo in altalena attorno a quota 12.000 dollari.
A innervosire i mercati, come già settimana scorsa, sono le indiscrezioni che continuano ad arrivare dall’Estremo Oriente in merito a ulteriori strette sulle criptovalute.
L’escalation cinese
In particolare è Pechino ad aver messo in atto una escalation di misure per non permettere ai cinesi di acquistare e vendere criptovalute. Le autorità locali dovrebbero vietare anche tutte le piattaforme che offrono servizi di trading centralizzato sulle criptovalute, stando a quanto affermato dal vicegovernatore della People's Bank of China, Pan Gongsheng. E ha aggiunto che saranno messi al bando tutti i siti nazionali e stranieri, le app mobili che forniscono servizi centralizzati per cinesi, piattaforme per servizi di pagamento in criptovalute e servizi che più in generale assistono gli utenti nello spostamento di fondi all’estero.
Insomma si tratta di misure per bloccare tutte le residue possibilità che i cittadini cinesi avevano di operare sulle criptovalute in un regime di inconvertibilità della valuta locale. Da settembre Pechino ha infatti dichiarato guerra a un mercato che dodici mesi fa valeva più dei tre quarti di quello globale sul Bitcoin. Le autorità locali hanno così chiuso le maggiori piattaforme per scambiare criptovalute bloccando di fatto l’operatività dei cinesi, frenati dalla impossibilità di conversione dello yuan.
Anzi la mossa di Pechino è attribuibile in prima battuta all’esigenza di mettere un freno al trading che si era trasformato in una modalità alla portata di tutti per esportare valuta. Con il risultato di accentuare la pressione anche sul cambio controllato e di mettere in difficoltà le autorità cinesi. Non è un caso che la stretta sia stata attuata alla vigilia di un delicato Congresso del Partito comunista che ha registrato gli equilibri del regime.
La messa al bando degli exchange era stata anticipata dal divieto delle Ico, le offerte di nuove valute che hanno messo a segno una vera e propia esplosione nel corso del 2017. Nelle ultime settimane la stretta si è allargata ai miners, che sfruttano l’energia a buon mercato di alcune aree del paese per fare affari nell’attività di certificazione delle transazioni in Bitcoin, vero fulcro dell’intero sistema.
La Corea teme per il cambio
Il progessivo sucecsso del Bitcoin in Corea del Sud, che oggi vale circa un quinto degli scambi globali sulla criptovaluta più nota, ha indotto anche Seul a mettere un freno all’attività. Settimana scorsa le autorità locali hanno di fatto bloccato l’operatività chiedendo agli exchange di non permettere più il trasferimento degli asset in criptovalute al di fuori dei servizi centralizzati: chi acquistava Bitcoin era costretto a tenerli presso l’exchange e quindi, di fatto, era impossibilitato a venderli.
La misura aveva provocato una progressiva impennata delle quotazioni sulle piattaforme coreane, che riflettevano il costo dei limiti all’operatività. A un certo punto Coinmarketcap, il sito di riferimento per le quotazioni che si basa sulla media dei valori al momento, ha dovuto escludere i prezzi degli exchange coreani, con il risultato di provocare una caduta di quasi il 15% solo come conseguenza del provvedimento. Che è stato seguito da un’inchiesta per evasione fiscale che ha di fatto bloccato le piattaforme.
Ma la Corea non sembra intenzionata a fermarsi qui: il Governo ha ventilato di essere pronto a provvedimenti per vietare il trading in criptovalute. E per impedire l’anonimità dei possessori di criptovalute.
A fare paura anche in questo caso è l’effetto che l’ondata di acquisti rischia di avere sul cambio. Basti pensare che a dicembre il Bitcoin è passato da 10.000 dollari fino a un picco vicino a 20.000, con scambi giornalieri attestati attorno ai 30 miliardi di dollari di controvalore. Chiaro quindi che gli acquisti hano avuto un effetto anche sul cambio del won coreano.
La stretta si spiega principalmente con l’esigenza di tenere sotto controllo il cambio. Ma, a differenza della Cina, in Corea i cittadini hanno libero accesso a piattaforme straniere e, quindi, la messa al bando degli exchange rende la vita più difficile, ma non impedisce il ricorso online a exchange esteri.
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