Con la sentenza 3767/18 la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulla questione se il risarcimento possa variare in funzione della residenza del danneggiato o del luogo ove la somma di denaro liquidata sarà presumibilmente spesa o investita.
I familiari di un uomo deceduto in un incidente stradale ottenevano dalla Corte d'appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, la condanna degli appellati al risarcimento del danno non patrimoniale, ridotto di circa un terzo rispetto a quanto sarebbe stato liquidato a persone residenti in Italia, tenuto conto della realtà socioeconomica del Paese in cui essi vivono. I giudici di Piazza Cavour, nell'accogliere il loro ricorso, richiamano il consolidato orientamento secondo cui va esclusa una diversa liquidazione del danno in ragione del contesto socioeconomico ove risiede la vittima dell'illecito (tra le più recenti, Cassazione 12221/15 e 12146/16). Non condividendo gli argomenti logico-giuridici dell'assicuratore del veicolo investitore, la Suprema corte osserva che dalla funzione compensativa del risarcimento non può desumersi che il ristoro della sofferenza soggettiva patita (il cosiddetto pretium doloris) possa essere modulato in base a dove vive il danneggiato, non essendo tale luogo una “conseguenza” del fatto illecito, né rientrando tra le “conseguenze” del danno l'utilizzo futuro della somma liquidata, né essendo il risarcimento in denaro necessariamente destinato ad essere speso, potendo essere tesaurizzato o investito (nel qual caso non è vero che nei Paesi più ricchi il capitale investito sia remunerato più proficuamente che in quelli poveri). Per di più, poiché il pagamento estingue l'obbligazione risarcitoria, non interessa ciò che il creditore farà con il suo denaro, ma di quale natura ed entità è stato il pregiudizio causato dal fatto illecito. Altrimenti, per paradosso, il creditore potrebbe trasferirsi in Paesi con reddito pro-capite elevato così da reclamare un risarcimento maggiore; o ancora, se la somma da liquidare mutasse in funzione della quantità di beni acquistabili, si perverrebbe all'assurdo che, a parità di sofferenza, il risarcimento sarebbe diverso a seconda dello stile e del tenore di vita, degli interessi e delle passioni del danneggiato, così come a seconda del tempo in cui la somma di denaro viene pagata, se di aumento generalizzato dei prezzi piuttosto che di stagnazione economica.
Non rileva neppure, secondo i massimi giudici, la sentenza della Corte di giustizia Ue, 10 dicembre 2015 (causa C-350/14) che ha stabilito quale debba essere la legge regolatrice del risarcimento del danno ai parenti stranieri della vittima in caso di fatto illecito avvenuto in uno Stato membro, senza occuparsi dei criteri di monetizzazione, materia del resto sottratta alla competenza comunitaria. Né costituisce valida censura alla decisione impugnata, conforme ai più recenti approdi di legittimità, il richiamo alla sentenza 1637/2000 della Cassazione, secondo cui il criterio della realtà socioeconomica può casomai valere ad ampliare l'importo da liquidare.
In replica all'ultimo argomento, ovvero che la mancata riduzione del risarcimento ai danneggiati residenti in Paesi poveri «costituirebbe una burla per gli italiani», perché «si concede tutto agli stranieri e niente, nella condizione inversa, viene dato agli italiani», rammentano gli Ermellini che, essendo ciascun ordinamento giuridico superiorem non recognoscens, la misura del risarcimento da liquidare in Italia non può farsi dipendere dal quantum attribuito, per il medesimo pregiudizio, in altri Stati, né il risarcimento del danno derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona (quali il diritto alla salute e ai rapporti parentali) è soggetto alla condizione di reciprocità di cui all'articolo 16 delle preleggi (Cassazione 8212/13).
In conclusione, la somma risarcibile non va adeguata al contesto socioeconomico del Paese in cui vive il danneggiato, anche se il potere di acquisto della moneta è diverso rispetto a quello che essa possiede in Italia.
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