Il primo round l’ha vinto Zuckerberg. Lo dice il mercato azionario, con Facebook Inc. che alla fine dell'audizione del Ceo davanti al Congresso Usa fa registrare un chiaro +4,5 per cento. Ma lo dice anche il comportamento dello stesso fondatore di Facebook, che dopo i primi minuti di tensione, abbottonato dentro a una giacca per lui inusuale, ha sciolto i muscoli trovando agio in un interlocutore forse troppo analogico per mettere in vera difficoltà uno dei leader mondiali del digitale.
In attesa di quella che sarà la seconda audizione, insomma, Zuckerberg porta a casa un buon risultato. Non una vittoria netta, forse. Ma almeno un pareggio con reti in trasferta. E lo fa nonostante l’elusione di alcune domande, le incertezze e l’ennesimo mea culpa che sta diventando ormai ridondante.
A Capitol Hill, il Ceo di Facebook ha risposto alle domande dei 44 senatori Usa per cinque lunghe ore. Spesso si è rifugiato in clamorosi «le farò sapere», altre volte ha detto inesattezze. Ma l’impianto accusatorio è sembrato troppo debole per mettere in crisi veramente la galassia Facebook. E a cristallizzare questa debolezza sono stati due tweet dei senatori Richard Blumenthal e Kamala Harris, che hanno esortato i loro elettori a seguire la diretta dell’audizione sulle loro pagine Facebook.
Troppa privacy, poca trasparenza algoritmica
La lunga maratona ha mostrato come la teatralità politica sia stata di gran lungo superiore ai momenti forti e necessari. L'impianto accusatorio (o quanto meno indagatorio) ha poggiato le sue basi in modo eccessivo sulla gestione della privacy, senza centrare il vero punto: la trasparenza dell’algoritmo di Facebook. Un fatto che ha certamente avvantaggiato il Ceo di Menlo Park, perché se sul capitolo privacy la volontà è quella di recepire un regolamento (lo farà anche in Europa col GDPR), il vero business di Facebook rimane blindato nel suo potente algoritmo.
L'impostazione, dunque, è sembrata fin troppo analogica. E Zuckerberg è riuscito a tenere testa agilmente rispondendo, ad esempio, che l'utente è sempre stato informato dei dati che stava per cedere scaricando una App. Oppure eludendo alcune domande.
Va detto che un momento topico lo ha regalato la senatrice Kamala Harris, che a un certo ha elencato a Zuck tutte le domande alle quali non ha risposto: «Se Facebook può tenere traccia delle attività dopo che un utente si disconnette, se Facebook può tenere traccia degli utenti attraverso i dispositivi, se FB memorizza fino a 96 categorie di informazioni sugli utenti. E perché non avete informato tempestivamente gli utenti coinvolti nello scandalo di Cambridge Analytica». Ad ognuna di queste domande Zuck ha in effetti fornito risposte incomplete, e in alcuni casi non ha proprio risposto.
L'irreversibilità dei dati
Un altro punto cardine, emerso da questa prima audizione di Zuckerberg davanti al congresso Usa, ripropone un fatto ormai chiaro: l'irreversibilità dei dati. Lo stesso Ceo non è riuscito a rispondere in modo preciso alla domanda “per quanto tempo Facebook mantiene i tuoi dati dopo aver eliminato il tuo account”. Zuck ha replicato così: «So che cerchiamo di eliminarli il più rapidamente possibile», e non può bastare. Ma l’irreversibilità dei dati è emersa anche quando si è parlato della possibilità che il pacchetto riguardante gli 87milioni di profili finito in mano a Cambridge Analytica sia tutt'ora in possesso di qualcun altro (magari in Russia?). Ed emerge ancora adesso quando, cancellando una App su Facebook, compare il messaggio: «La App X potrebbe ancora disporre delle informazioni che hai condiviso con l'applicazione. Contatta X o consulta la Normativa sulla privacy di X». Anche questo appartiene alle controverse impostazioni dell'algoritmo di Facebook che non sono state discusse a Capitol Hill.
La media company
Infine, di notevole importanza il passaggio sulla vera natura di Facebook. Zuckerberg ha ammesso: «Siamo responsabili dei contenuti pubblicati sulla piattaforma», ma allo stesso tempo ha difeso la natura tech di Facebook: «Considero Facebook una tech company, non una media company. È vero, siamo responsabili dei contenuti, ma non li produciamo noi». Una risposta che pone, ancora una volta, il problema di regolamenti troppo datati per l'età dei dati.
© Riproduzione riservata