Una strage dietro le quinte, vista con il corpo e la testa irreparabilmente danneggiati di chi è sopravvissuto. Di questo parla “22 luglio” di Paul Greengrass, tratto dal libro di Asne Seierstad, “Uno di noi”, basato sulla testimonianza di uno dei ragazzi sopravvissuti alla strage di Utoya, avvenuta appunto il 22 luglio 2011, quando l'estremista filonazista Anders Breivik (Anders Danielsen Lie) mise un'autobomba davanti al palazzo del Primo Ministro a Oslo causando 8 morti e oltre 200 feriti per poi dirigersi all'isola di Utoya dove si stava svolgendo un campo estivo di giovani dai 14 ai 20 anni, organizzato dal partito Laburista norvegese. Travestito da poliziotto, arrivò con l'inganno sull'isola e cominciò a sparare sui ragazzi inermi come in una caccia animale, fino a uccidere 69 persone e a ferirne 110. Recentemente già un altro film, “U-July 22” di Erik Poppe, presentato allo scorso festival del cinema di Berlino, aveva raccontato la tragedia.
La pellicola di Greengrasse, contrariamente a quella di Poppe, che era un lungo piano sequenza con camera a spalla, non ha originalità registiche ed esaurisce nella prima parte la tensione e la follia dell'attentato per concentrarsi sulle conseguenze fisiche e piscologiche. Il regista inglese – già autore di “Bloody Sunday” e “United 93” – guarda il crimine soprattutto attraverso gli occhi di Viljar (Jonas Strand Gravli), un ragazzo delle isole Svalbard che cerca di riparare sé e il fratello dalla furia di Anders Breivik. Di Viljar lo spettatore è in grado di sentire il dolore fisico, la grave ingiuria all'occhio, che lo rende in parte cieco, alla gamba, che non recupera più appieno, alla testa, dove sono rimaste alcune schegge di pallottola in grado di ucciderlo in ogni momento se a contatto con zone vitali. Greengrasse guarda anche alla lucidità di breivik e del suo misfatto, alla delirante intenzione che lo ha portato alla strage – la richiesta del blocco dell'immigrazione per fermare l'islamizzazione dell'Europa, il desiderio di estirpare le giovani nuove leve della politica democratica –, senza farne un mostro, bensì evidenziando il pericolo della deriva terroristica di certa parte del nazionalismo estremista. Si esce provati.
Purtroppo si ha poco sollievo anche dalla visione de “I villeggianti”, film Fuori Concorso di Valeria Bruni Tedeschi. La forma di umorismo intelligente e denigratoria di se stessa e del côté altoborghese cui appartiene funziona solo nella prima parte del film, quando una scritta in sovrimpressione ci avverte che tra tutte le forme di trauma il peggiore è quello del divorzio. Bruni Tedeschi interpreta il ruolo di Anna, regista in fase di progettazione della sua nuova opera, che viene lasciata dal marito Luca, Riccardo Scamarcio, pochi minuti prima di una riunione importante per il finanziamento del film. La commissione, in cui si riconosce il regista Frederick Wiseman nel ruolo di se stesso come esaminatore, denuncia quello che è il vero difetto del film, ovvero di ritornare su temi autobiografici già affrontati in “E' più facile per un cammello…”, “Attrici” e “Un castello in Italia”, dedicato alla figura del fratello morto di Aids.
Torna il cinismo dei ricchi, insensibili alle necessità di chi ha davvero bisogno di lavorare, l'egoismo della stessa regista, completamente chiusa dentro l'abbandono amoroso, incapace di vedere gli altri e di tenere fede agli impegni con la sceneggiatrice invitata a passare un periodo nella villa. Un mondo in cui tutto appare luccicante ed elegante, ma in cui tutto è in verità corrotto e pieno di tristezza, senza rispetto. Dal naufragio è risparmiata solo la piccola figlia della coppia, Oumy Bruni Tedeschi, anche nella realtà figlia della regista e di Garrel, cui la figura di Luca potrebbe essere ispirata. La sorella, Valeria Golino, potrebbe ricordare Carla Bruni, mentre il marito di quest'ultima, Pierre Arditti, potrebbe essere riconducibile a Sarkozy. Si legge nel film una solitudine profondissima che però non convince come era accaduto nelle altre pellicole e che nemmeno il finale felliniano salva.
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