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A caccia della condivisione perduta sul valore dell’industria

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A caccia della condivisione perduta sul valore dell’industria

Si è tenuto a Torino a metà dicembre, promosso dall’Associazione italiana economisti d’impresa di cui Franco Momigliano è stato fondatore, un convegno dedicato a come è cambiata la politica industriale in Italia e in Europa a trent’anni dalla morte dell’economista che è considerato il padre fondatore dell’economia industriale italiana.

Scrisse infatti nel 1975 il suo famoso saggio Economia industriale e teoria dell’impresa mettendo a frutto le riflessioni ed esperienze fatte anche prima di avviarsi alla carriera accademica quando fu per vent’anni a capo delle relazioni sindacali dell’Olivetti e poi responsabile della Direzione studi dell’azienda che era allora un faro a livello mondiale per l’innovazione tecnologica.

Non a caso nei suoi lavori emergeva già (e fu tra i primi in Italia a parlarne) il tema dell’automazione come elemento che avrebbe cambiato i paradigmi della produzione. Ed era ben consapevole del ruolo strategico che può avere il governo con una programmazione economica che tenga conto degli interessi dei lavoratori e degli imprenditori.

Parlare infatti di politica industriale in quegli anni significava guardare a tre attori chiave: governo (principalmente) e poi Confindustria e sindacati che co-definivano azioni e interventi tesi a dare impulso e sviluppo all’industrializzazione del Paese e al rafforzamento del tessuto produttivo manifatturiero.

Ma è ancora attuale parlare di questo tema oggi?

In questi anni, non solo in Italia ma in tutta la dimensione europea, sono cambiati gli attori stessi della politica industriale. Governo, sindacati e Confindustria che dominavano la scena economica di allora hanno visto mutare ruoli e funzioni.

È fortemente diminuito il margine di manovra sul bilancio pubblico nazionale (anche le ultime vicende di cronaca economica e politica lo dimostrano) ed è venuta inoltre a mancare la capacità di programmazione pluriennale dei governi. Confindustria e sindacati subiscono, come tutti i corpi intermedi, l’effetto della rivoluzione digitale che sta disintermediando la nostra società e ponendo interrogativi stessi sulla natura della democrazia rappresentativa.

Parallelamente però sono emersi due fattori che hanno ormai grande impatto e determinano de facto le vere scelte sul futuro dell’industria: l’adeguatezza o meno delle infrastrutture di connessione materiale e immateriale; l’impatto dell’innovazione tecnologica sull’industria.

Questi due fronti, con le rispettive aree di azione politica, sia a livello europeo che nazionale, influenzano e indirizzano in modo determinante la politica industriale di un Paese.

Le infrastrutture sono un tema centrale. L’industria non vive più di sola produzione come avveniva negli anni 70.

Oggi chi produce vive i problemi della distribuzione come un elemento integrante delle stesse scelte produttive. Quindi la logistica è un processo totalmente integrato a quello della produzione. Senza logistica non c’è la capacità di servire un mercato che è sempre più globale. All’epoca di Momigliano l’Europa e il mondo erano “piccoli” in confronto a oggi. I mercati erano relativamente locali: Russia ed Est Europa, Africa e Cina erano totalmente fuori dai radar del commercio mondiale. Ma oggi è tutto diverso.

Le infrastrutture di connessione per un Paese trasformatore (cioè che importa materie prime ed esporta manifattura come l’Italia rimanendo saldamente il secondo Paese manifatturiero d’Europa) sono determinanti per il futuro dell’industria e finiscono per influenzarne lo sviluppo più di quanto non facciano azioni di supporto diretto o indiretto come sgravi o agevolazioni fiscali.

E poi c’è la dimensione dell’innovazione tecnologica che sta rivoluzionando in modo radicale e dirompente tanto i sistemi di produzione che quelli di distribuzione. Le politiche di implementazione delle nuove tecnologie nell’industria, come il pacchetto Industry 4.0 sono esempi di nuove forme di politica industriale.

Oggi molto più che in passato c’è un vero binomio: politica industriale = politica per ricerca e innovazione tecnologica, che si porta dietro altri due temi fondamentali. Quello degli investimenti in formazione per adeguare le competenze professionali delle nuove generazioni alle sfide delle nuove tecnologie. E quello dell’economia circolare, ossia di come oggi sia possibile coniugare sviluppo industriale e rispetto dell’ambiente grazie a nuove tecnologie.

Oltre a nuovi temi ci sono poi anche nuovi attori rispetto agli anni 70.

Pensiamo all’Unione europea (grazie, ad esempio, ai programmi quadro per la ricerca e l’innovazione tecnologica) oppure a soggetti locali come le fondazioni bancarie che spesso operano a livello locale come agenti di sviluppo del territorio. Anche il sistema bancario è cambiato radicalmente, passando dal ruolo di mero finanziatore a quello di accompagnatore nei confronti delle imprese.

La politica industriale oggi è quindi più fluida rispetto al passato, vede più soggetti e più temi che intersecano i loro effetti rispetto al mondo molto più “piccolo” e più “ingessato” dell’Italia di allora.

Però in quegli anni c’era la condivisione di tutte le forze politiche e produttive su quello che era il valore dell’industria per il nostro Paese e su come questa fosse un pilastro imprescindibile per costruire il nostro ruolo in Europa e nel mondo. E c’era la capacità di darsi un indirizzo condiviso che guardasse a un orizzonte lungo.

Oggi questo manca. Ecco perché rileggere Momigliano è un consiglio utile.

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