Caro Direttore,
ho letto con attenzione il suo pezzo di martedì e con altrettanta attenzione il contributo di ieri del direttore generale di Ucimu, Alfredo Mariotti.
Faccio una premessa: mi permetto di darle questo contributo non soltanto da presidente di Fondimpresa, il più grande fondo interprofessionale per la formazione continua di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, con oltre 196mila aziende aderenti e 4,6 milioni di lavoratori quanto da imprenditore nel ramo dei servizi.
Viviamo una sfida epocale. O facciamo diventare la formazione una priorità del Paese o siamo destinati ad arretrare pesantemente nel ranking mondiale, nonostante la nostra indubbia capacità e perizia di quella che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ribadito essere la seconda potenza manifatturiera europea.
I numeri non consentono di perder tempo se come dice il vicepresidente di Confindustria Gianni Brugnoli «nei prossimi cinque anni serviranno 300mila addetti specializzati».
Dobbiamo avere il coraggio come Paese di far andare le scelte delle politiche dei Governi e della comunicazione istituzionale in questa direzione.
Siamo in difficoltà già adesso. Cosa succederà quando andranno in quiescenza le generazioni (la prima, credo, fosse quella del 1964) dei cosiddetti baby boomer che nei mille ruoli hanno portato avanti la nostra industria e tutti i mestieri artigianali?
Ora non so se basti cambiare nome ai periti per ottenere questo risultato ma è fondamentale rendere attraente la proposta formativa e i percorsi lavorativi collegati.
Non nascondo di essere affezionato al nome perito, perché l’etimo latino riporta al concetto di “fare esperienza” e questo è un patrimonio concettuale che non vorrei si perdesse.
Ma aldilà di ciò è evidente che - ha perfettamente ragione l’ad di Philip Morris, Eugenio Sidoli - occorrono decisioni di valenza anche simbolica che impattino pure sulla sfera emotiva delle persone.
Credo che il primo problema sia rendere accattivante e cool scegliere di lavorare in un’azienda, anche “tradizionale”. Dobbiamo, innanzitutto, rimettere al centro le imprese, perché le imprese, con tutta la loro comunità fatta di tutti i ruoli che ne contribuiscono alla vita, creano ricchezza e valore per tutti.
Rimettere al centro le imprese può significare tante cose e certamente non è un compito solo dello Stato ma deve vedere tutta la comunità nazionale impegnata in questo scopo.
Dobbiamo presentare alle famiglie nelle scuole medie inferiori le storie delle aziende in linea con il grande lavoro che fa Confindustria con il Pmi Day.
I governi dovranno certamente investire sull’alternanza scuola-lavoro: uno strumento che ha visto l’indubbio merito di far entrare in azienda i ragazzi di ogni età, a prescindere dal corso di studi frequentato, e investire sugli Its.
Come sostiene spesso il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia «la frase che un tempo si diceva “se non studi, vai a lavorare” oggi va cambiata in “se studi, vai a lavorare”». E ha ragione, e la formazione deve essere permanente.
Non sfugge a nessuno che l’evoluzione dovuta all’applicazione delle competenze digitali in azienda fa sì che ogni azienda debba avere persone con competenze digitali, meccaniche e meccatroniche. Questo è un vantaggio soprattutto perché ci permetterà di inserire in azienda nativi digitali che - se forniti anche di competenze tradizionali - potrebbero rappresentare l’ennesimo colpo vincente per il nostro manifatturiero.
Parallelamente sarà importante supportare le aziende nella digital transformation con una formazione digitale permanente e in questa direzione stiamo lavorando come Fondimpresa.
Presidente Fondimpresa
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