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Uva (Uefa): «Al calcio femminile servono progettualità e investimenti»

Carli Lloyd, bomber e trascinatrice della nazionale statunitense, che solleva la Coppa del Mondo (la terza della loro storia per le ragazze a stelle e strisce, record), dopo aver sancito con un gol da centrocampo il trionfo delle yankees sulle giapponesi. Forse è in quella serata che chiuse, quattro anni, fa il Mondiale di Canada2015, che è iniziata la ripartenza del calcio italiano. Perché, come ormai noto, da quel palcoscenico le nostre ragazze mancavano da un bel pezzo. Proprio quattro anni fa, seguendo gli input che arrivavano dall'Uefa, la Federcalcio da poco presieduta da Carlo Tavecchio (subentrato, malgrado la gaffe su Optipogbà ad Abete, travolto dallo tsunami del Mondiale brasiliano) metteva a punto il programma di rilancio del nostro calcio in rosa. Progetto che ha avuto in Michele Uva, classe 1964, allora direttore generale della Federcalcio e ancora oggi vicepresidente Uefa, il suo motore primo. «Abbiamo studiato cosa accadeva e ancora sta accadendo all’estero – ci spiega al telefono appena rientrato da Valenciennes e dal primo successo delle azzurre al Mondiale contro le australiane - e abbiamo sviluppato un progetto capace di tenere conto della specificità della situazione italiana».

Un'emozione speciale, immagino, questa splendida vittoria a Valenciennes…
La partita è stata sequenza di emozioni, direi un bellissimo spot in cui sono stati trasmessi passione e forza sportiva. Sono stati oltre 3,5 milioni i telespettatori che hanno finalmente certificato che la maglia azzurra ha una sola tonalità per uomini e donne. Ora non bisogna festeggiare troppo e spostare l’attenzione sulla Giamaica. Una sfida che non sarà semplice.

Si aspettava un'attenzione mediatica, e una crescita tecnica, tanto rilevanti?
Sarei presuntuoso a dire oggi, col senno di poi, che mi sarei aspettato questi risultati, sportivi e mediatici ma certo quello che abbiamo messo in campo è stato un percorso ben calibrato, ragionato. E c'è stato finora un mix di fattori positivi: il lavoro federale che sta continuando ancora oggi, pur sotto la nuova gestione-Gravina; l'attenzione dei media; la grande disponibilità delle ragazze del gruppo azzurro, che hanno capito che questa è un'occasione da sfruttare, per il bene di tutto il movimento.

Un periodo così florido non c'era mai stato in Italia…
Beh non è del tutto vero, perché agli inizi degli Anni Novanta, nel periodo di Carolina Morace e Betty Vignotto, abbiamo partecipato ai Mondiali, vinto due argenti Europei, insomma c'eravamo e ci facevamo sentire. Poi ci sono stati quindici anni di oblio, un filo che si era spezzato e che ora abbiamo riannodato, per riallinearci al resto del mondo.

Qual è stata la chiave?
Direi il coinvolgimento dei club professionistici, con l'obbligo di sviluppare un settore femminile, anche a livello giovanile. Abbiamo trovato disponibilità e condivisione, anche perché il bacino d'utenza è potenzialmente molto interessante: la Francia conta 200mila tesserate, la Germania 300mila, noi siamo partiti da 15mila e ora siamo a 25mila, ma possiamo arrivare almeno a 100mila. E poi, perché non immaginare donne anche nei ruoli manageriali, tecnici, e medico-scientifici?

Servono passi avanti culturali sostanziali: come fare?
Servono esempi e tempo, ma il seme è stato gettato. Le bambine che giocano nei settori giovanili dei club professionistici migliorano tecnicamente, e questo farà migliorare la qualità del prodotto-calcio femminile. Servono ora progettualità, investimenti e monitoraggio dei risultati.

Prossimo obiettivo?
Bisogna consolidare la base, perché al vertice sono entrati, appunto, i top club, e ci resteranno a lungo. I centri federali sono una bellissima palestra per reclutare ragazze appassionate e desiderose di giocare. Ora bisogna aumentare ancora il numero delle squadre maschili che hanno una sezione femminile, e avere una presenza capillare sul territorio.

E a livello Uefa come state operando?
Abbiamo appena definito il nuovo progetto fino al 2024, aumentando gli investimenti (da 1,4 a 2,5 milioni annui, n.d.r.), perché siamo convinti che lo sviluppo del calcio vada di pari passo con quello sociale del ruolo della donna.

Un solo rischio: imitare gli uomini anche nelle loro degenerazioni ed eccessi…
Possiamo evitarlo, ed in parte è già così: nel calcio donne c'è più fair-play, meno simulazioni. La strada è quella giusta, ma in questo momento dobbiamo mantenere ben salda la rotta.

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