Il Grande fratello non può fare come gli pare. È quanto, in soldoni, ha deciso l’Antitrust chiudendo ieri due istruttorie, avviate nell’ottobre scorso, nei confronti di WhatsApp, il servizio di messaggistica istantanea di proprietà di Facebook, per la vicenda della condivisione dei dati personali con il potente social network. WhatsApp dovrà pagare una multa di tre milioni di euro
per aver «indotto gli utenti di WhatsApp Messenger ad accettare integralmente i nuovi termini di utilizzo, in particolare la condivisione dei propri dati con Facebook, facendo loro credere che sarebbe stato, altrimenti, impossibile proseguire nell'uso dell'applicazione». La sanzione è più bassa del massimo previsto per queste violazioni di 5 milioni di euro. Non una gran cosa, per la ricca società di Mark Zuckerberg. In ogni caso, la multa è significativa perché sancisce un principio, che le società di internet non hanno il diritto di trattare i dati personali come vogliono - come peraltro fanno profilando i siti, le schermate, consigliando merci e pubblicità a tutti gli internauti - quello che appunto Orwell tanti anni fa, nel 1949, immaginava nel famoso romanzo «1984». Non è tutto. WhatsApp dovrà in qualche modo anche cospargersi il capo di cenere. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato l’ha anche obbligata a informare tutti gli utenti italiani. E nei prossimi giorni verrà notificato a tutti gli iscritti dei provvedimenti presi dall’Antitrust. Per il Codacons «si tratta di una vittoria degli utenti contro lo strapotere dei social network». WhatsApp ha detto che sta «rielaborando la decisione» e che «risponderà ai funzionari dell’Antitrust» cbe hanno prodotto un articolato documento, molto particolareggiato, che spiega nei dettagli tutte le motivazioni che l’hanno portata alla sanzione.
Lo scorso anno tutte le autorità antitrust dei 28 paesi dell’Unione europea hanno chiesto a WhatsApp di bloccare la condivisione dei dati personali degli utenti con Facebook. L’Antitrust italiana aveva aperto le due istruttorie nell’ottobre scorso, nello stesso momento in cui arrivò la richiesta europea. All’epoca il portavoce di WhatsApp aveva precisato che la società stava lavorando con le autorità nazionali per rispondere ai loro dubbi, e che era impegnata rispettare le norme sulla tutela dei dati personali. La multa è arrivata. L’Antitrust ha precisato che ha trovato altri aspetti scorretti nei termini di utilizzo di WhatsApp. Disposizioni sulle limitazioni di responsabilità per l’app «molto ampie e generiche». Così come la possibilità da parte della società di interrompere il servizio «senza motivo e senza preavviso». E ancora, il diritto di risolvere il contratto unilateralmente o introdurre aumenti economici senza giustificazioni»
Nel febbraio 2014 Mark Zuckerberg ha decise di comprare il servizio di messaggistica instantanea per 19 miliardi di dollari. Una cifra enorme. Motivata dall’incredibile crescita di cui si è reso protagonista WhatsApp, il servizio di messaggistica concorrente. Che deve la sua fortuna a un meccanismo elementare, che per la sua semplicità, si è diffuso a una velocità record in tutto il mondo, tanto da essere diventato l’erede degli sms. Zuckerberg non è riuscito ad ottenere lo stesso risultato con Messenger. Così, alla fine ha decise di comprarsi il concorrente che rischiava di crescere troppo. Gatto che mangia il topolino.
Il miliardo e passa di utenti di WhatsApp sono un patrimonio enorme per una società come Facebook che ha fatto della condivisione la sua fortuna - Facebook, con Google controlla il 90% della pubblicità digitale. Non sono bastate le rassicurazioni e le promesse da ambo le parti all’epoca del deal di non mischiare servizi e dati. Molti osservatori temevano questo scenario, considerando soprattutto che il social network si basa sulla vendita di annunci pubblicitari mentre il servizio di messaggistica è privo di pubblicità. Lo scorso agosto è accaduto. WhatsApp ha introdotto le novità sulla gestione dei dati: «Vogliamo - scriveva - esplorare modi per poter comunicare con le imprese, continuando a fornire un’esperienza senza banner pubblicitari di terze parti e spam». L’aggiornamento dei termini dell’informativa sulla privacy portava le imprese dentro le chat. La multa dell’Antitrust sta lì a ricordarlo.
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