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Così l’intelligenza artificiale sconvolgerà gli studi legali

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il fenomeno «lawtech»

Così l’intelligenza artificiale sconvolgerà gli studi legali

Si chiama “lawtech” ed è la rivoluzione tecnologica che sta mutando il volto dei grandi studi legali, in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Una rivoluzione non meno esaltante di quella del fintech, o delle idee diventate enormi business come i motori di ricerca o i social media. Certo, il lawtech si muove in scala minore: nel 2016, secondo CB Insight, il valore delle acquisizioni di start up del settore ha toccato i 155 milioni di dollari. Ma basta spulciare tra le decine di startup che popolano il mondo del lawtech anglosassone - a volte finanziate da venture capital, spesso dalle stesse grandi law firms - per trovare intelligenze artificiali in grado di automatizzare i lavori routinari dell’ambito legale, oppure di setacciare i “big data” per preparare le cause o raccogliere informazioni di ogni tipo.

Partiamo per esempio dalla Silicon Valley, dove nel lontano 2006 nelle aule della Stanford University un docente quarantenne, Mark Lemley, iniziò a lavorare sul progetto di un software in grado di gestire le controversie legali sulla proprietà intellettuale. Da quell’idea nacque Lex Machina, software in grado di analizzare lo storico di migliaia di cause per individuare la miglior strategia processuale, rimpiazzando di fatto il lavoro umano routinario degli avvocati junior: a utilizzarlo non solo solo gli studi legali, ma anche società del calibro di eBay, Microsoft o Shire Pharmaceutical.

Nel 2016 un altro colosso legale, Allen & Overy, si è alleato con Deloitte per creare MarginMatrix, software che gestisce per conto delle banche i nuovi processi di compliance introdotti sul mercato dei derivati over-the-counter: l’intelligenza artificiale è in grado di redarre in tre minuti documenti che fino a ieri richiedevano tre ore di lavoro di un avvocato umano.

Sempre a Londra il colosso legale britannico Linklaters, presente con 29 uffici e oltre duemila avvocati in 20 Paesi del mondo, ha messo a punto assieme alla startup londinese Eigen Technologies un device chiamato LinkRFI: è un software che setaccia per conto di banche del calibro di Lloyds Banking o RBS i registri delle autorità di regolamentazione finanziaria europee per controllare migliaia di nominativi in tempo reale, e con grande accuratezza.

Nella capitale inglese è nata anche Ravn, un’intelligenza artificiale in grado di “leggere” migliaia di documenti in tempo reale organizzandone i contenuti secondo la chiave di analisi desiderata. Una ricerca hi-tech sartoriale, utilissima in studi legali in cui la massa di documenti continua a crescere. Oltre che law firms del calibro di Berwin Leighton Paisner, questo software viene utilizzato anche da società come Sky e Bloomberg.

A fronte della moltiplicazione dei robot, non fa quasi più notizia la stima di Deloitte Insight, che nel prossimo decennio prevede la scomparsa di oltre 110mila posti di lavoro nel settore legale (il 39% del totale). Ne verranno creati di nuovi, naturalmente, ma secondo Peter Saunders - uno degli analisti di Deloitte che ha scritto la ricerca in questione, “Developing legal talent” - il vero problema è che già oggi esiste un disallineamento tra le figure professionali formate nelle università e quelle (con curriculum più ad ampio respiro) di cui gli studi legali hanno effettivamente bisogno. Come nel resto del mondo del lavoro, anche in ambito legale i robot hanno gioco facile nel sostituire gli umani negli impieghi routinari. Ma sono ben lontani dal surclassarci quando entrano in gioco empatia, creatività e flessibilità.

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