I dati croce e delizia. Facebook, colosso da due miliardi di utenti che proprio sui dati poggia le sue fondamenta, è alle prese con una controversia legale che potrebbe scatenare un enorme effetto domino. E i cui potenziali effetti sono incalcolabili. Tutto nasce da una sentenza di un tribunale di Berlino, che di fatto dà un sonoro ceffone alle mosse attuali sui dati personali applicate da Facebook. Un giudice tedesco, dopo le richieste di un'associazione di consumatori (la Vzbv), ha stabilito che sarà possibile iscriversi al social network di Mark Zuckerberg anche senza alcun obbligo di fornire i propri dati personali autentici.
Ergo: chi vorrà iscriversi con un nickname fasullo potrà farlo. E inoltre, non sarà più considerata valida la clausola, contenuta nelle condizioni generali del social network, secondo cui l'azienda con sede a Menlo Park può cedere ad aziende terze i dati personali e l'immagine del profilo. La sentenza del tribunale berlinese ha dichiarato non valide 8 clausole delle condizioni generali e 5 impostazioni predefinite. Attualmente non è ancora passata in giudicato e il colosso del web ha già annunciato di voler ricorrere in appello contro questa decisione. Ma l'impressione è che a Berlino tiri una brutta aria per Facebook.
«Facebook nasconde le preferenze che non favoriscono la tutela della privacy nel suo centro privato, senza dare informazione di questo durante la registrazione in modo sufficiente», ha affermato il referente giuridico dell'Associazione dei consumatori, Heiko Duenkel. Un portavoce dell'azienda di Zuckerberg ha invece ribadito il massimo impegno a rispettare le regole, anche in virtù del nuovo dettame normativo europeo in arrivo a primavera: «stiamo lavorando per garantire che le nostre linee guida siano facili da capire e che i servizi offerti da Facebook siano conformi alle leggi» ha detto all'agenzia Reuters.
Zuckerberg “preso a pugni”
Intanto sta facendo molto discutere la copertina che il mensile statunitense Wired ha dedicato proprio a Facebook, proponendo un Mark Zuckerberg col volto tumefatto come dopo un estenuante incontro di boxe. Una metafora che racchiude gli ultimi due anni: ventiquattro mesi in cui Facebook è finito più volte al centro delle polemiche. Tutto è iniziato con le elezioni statunitensi vinte da Trump e il famigerato Russiagate: episodi che hanno posto l'attenzione sul fanomeno delle fake news. Poi il nuovo algoritmo, che penalizza le news. Infine gli ultimi numeri, che indicano un po' di insofferenza da parte degli utenti (meno tempo speso sulla piattaforma), e qualche fuga di troppo verso altri social. Di questi ultimi due anni, l'inchiesta di Wired segna una time line ben precisa, iniziata nel marzo del 2016 con il licenziamento di Benjamin Fearnow, uno dei giornalisti che curavano il feed Trending Topics. Fearnow aveva descritto a Gizmodo un ambiente nel quale, scriverà il sito nel maggio 2016, «le notizie di orientamento conservatore venivano sistematicamente rimosse». Poi, a giugno dello stesso anno, le accuse di Rupert Murdoch che vede Facebook come una minaccia per l'esistenza dei media. E via via le altre storie: fino al Russiagate (con le ammissioni di Zuckerberg) e il nuovo alogitmo. Un duello da ring che ha visto il CEO del social network combattere contro molti avversari, insomma.
Le Fake News fanno scappare la pubblicità
Intanto proprio nelle ultime ore, una nuova minaccia arriva dal colosso pubblicitario Unilever. Il secondo più grande inserzionista al mondo, infatti, ha fatto sapere a Facebook e Google che smetterà di fare pubblicità sulle loro piattaforme se non faranno di più per combattere le fake news. Tanto per dare un’idea lo scorso anno l’azienda ha investito su Facebook 9 miliardi di dollari.
Ai due colossi viene chiesto di aumentare la trasparenza, per difendere i minori da contenuti potenzialmente nocivi: «Essendo uno dei principali inserzionisti al mondo, non possiamo avere un ambiente in cui i nostri clienti non credono a quello che vedono online» è riportato in un messaggio di Keith Weed, capo del marketing della multinazionale. «Unilever – è scritto ancora - non investirà in piattaforme o ambienti che non proteggono i nostri bambini o creano divisioni nella società e promuovono rabbia e odio. Daremo la precedenza a investimenti solo in piattaforme responsabili che sono impegnate a creare un impatto positivo sulla società». Da una parte, dunque, Facebook deve combattere il falso. Dall'altra è costretta (da un tribunale) ad accettare iscrizioni da utenti con dati falsi. Una vera patata bollente, insomma.
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