Il malcontento cova da tempo: vedere il proprio marchio, soprattutto se si è una multinazionale con presenza di un centinaio di mercati e budget a sette zeri, apparire su siti che alla reputation prediligono il clickbite, fa storcere il naso ai manager. Anche perchè il digitale offre oggi strumenti di individuazione del target sempre più profilante: dalla geolocalizzazione fino all’analisi delle preferenze nei diversi settori merceologici. Centrare in modo sempre più selettivo il pubblico che si intende raggiungere con il proprio messaggio pubblicitario è diventato un mantra che, com’era prevedibile, colossi come Google o Amazon hanno trasformato in pianificazione.
Le potenzialità offerte dai big data a chi le sa cogliere hanno inevitabilmente sedotto le grandi aziende sempre più insofferenti nei confronti dei centri media tradizionali, che finora hanno proposto presenze “a pacchetto” dei brand su più media, sacrificando la qualità sull’altare della quantità. Una tattica che risulta sempre più indigesta. Non arriva per caso la protesta di colossi come Procter & Gamble o Unilever che mal sopportano il posizionamento dei propri marchi in contesti che ritengono poco adeguati. Con riferimento non casuale a Facebook, che con i suoi 16 miliardi di ricavi l’anno si propone come leader di un mercato in via di costruzione
Sono molte le iniziative messe in campo che in vario modo cercano di attrarre le esigenze sempre più raffinate degli inserzionisti. Ma il punto è che il digitale alza sempre più l’asticella della profilazione dell’inserzionista del web. Che sempre più spesso vuole, anzi, pretende di apparire su siti di qualità, previlegiandoli rispetto a quelli che puntano al clickbiting sia per modalità comunicativa, che per contenuti (gattini e bikini, per intenderci). E allo stesso tempo punta a forme di brand journalism in cui i contenuti siano coerenti con la narrazione dell’inserzionista, in un ribaltamento dei ruoli che farà storcere il naso a molti ma che si sta consolidando in modo evidente.
Le risposte sono - fortunatamente - di diversa natura e mettono alla prova la capacità degli editori di mostrare le proprie capacità sul mercato. Anche perchè il digitale esplode il mercato non solo lato domanda ma anche lato offerta degli spazi pubblicitari: basta pensare al Trasparent Ad Marketplace, lanciato a inizio anno da Amazon Publisher Services, che di fatto crea un’asta al rialzo tra inserzionisti per conquistare gli spazi migliori. Il tutto sul cloud, creando vantaggi per publisher, inserzionisti e utenti.
Ma siamo soltanto all’inizio di una rivoluzione che vede il tema qualità trasformarsi da petizione di principio a scelta strategica che determina la politica commerciale. A partire dalla metà di febbraio Chrome, ossia Google, interromperà le visualizzazione di tutti gli annunci (compresi quelli di proprietà o serviti da Google) sui siti web che visualizzano annunci che non rispettano standard specifici su come il settore dovrebbe migliorare gli annunci per i consumatori: annunci a pagina intera o che riproducono in modo inaspettato audio e annunci lampeggianti sono tutti vietati.
Analogo l’impegno messo in campo da System 24, concessionaria di pubblicità del Gruppo Sole 24 Ore: dall’approccio quantitativo degli spazi pubblicitari digitali si passa a un approccio qualitativo, ossia attenzioni alla brand safety, alla visibilità delle adv, contrastando l’affollamento delle pagine e l’adfraud. Il tutto certificato dalla tecnologia di “ad verification” delle campagne e dell'inventory da parte di Ias (Integral Ad Science), partner con il più alto numero di certificazioni del Media Rating Council.
Un discrimine contro fake news da una parte e campagne spam dall’altra, sempre più indigeribili per le imprese che si contendono gli spazi in un contesto mediatico in cui la competizione diventa così al rialzo dal punto di vista qualitativo.
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