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facebook chiude 650 profili

Il mondo delle fake news: chi le crea, a cosa servono, quanto incidono sulle elezioni

Parola d'ordine: vietato mollare. Lo scontro fra le piattaforme digitali e le fabbriche di fake news non ha soluzioni di continuità. Non esistono fasce orarie, territori da presidiare, tregue e trincee. Esistono le notizie false, chi le produce, gli algoritmi che cercano di stanarle e interi team che provano a bloccarle sul nascere. Il resto è cronaca, è storia che unisce Russia e Stati Uniti a colpi di tweet, di campagne pubblicitarie su Facebook da migliaia di dollari. E non stupisce, allora, che nelle ultime ore Facebook abbia rimosso oltre seicentocinquanta nuovi profili considerati falsi e implicati in comportamenti considerati di “disturbo” in vista delle elezioni di midterm, in programma negli Stati Uniti il prossimo novembre.

Decisione simile anche per Twitter, che ha sospeso circa trecento account con il sospetto di “manipolazione coordinata”, molti dei quali sembrano essere originati in Iran. Due operazioni di “pulizia” che lanciano un messaggio abbastanza chiaro: il problema delle fake news è tutt'altro che vicino alla soluzione.

Un fenomeno globale
La produzione di disinformazione è ormai una piaga globale. Coinvolge decine di governi e attori oscuri che usano metodi sofisticati per mascherare le loro identità, le loro posizioni. Un recente rapporto dell'Oxford Internet Institute, un laboratorio di ricerca associato all'Università di Oxford, ha trovato campagne organizzate di disinformazione che si svolgono sui social media in 48 paesi, ben 20 in più rispetto ai 28 del 2017. Segno evidente che gli sforzi profusi dalle piattaforme per limitare il fenomeno sono insufficienti, o comunque non efficaci.

Un post vale uno
Quello delle fake news è un mondo articolato. Anche se non sempre è gestito da vere e proprie organizzazioni. Come evidenziato da diversi studi sul fenomeno, spesso la generazione di notizie false non ha un'organizzazione vera e propria alle spalle, e parte da utenti isolati che hanno il solo scopo di destabilizzare i contenuti che circolano in Rete. Tutto parte da un presupposto ormai noto: con l'avvento dei social network, il concetto di informazione è cambiato drasticamente: un titolo, oggi, vale molto più di una testata. L'autorevolezza di chi pubblica ha lasciato spazio a ciò che si pubblica. Su Facebook, come su Twitter e sugli altri social, un contenuto falso pubblicato da una sedicente fonte ha la stessa visibilità di un contenuto vero. Un post vale un post. È la viralità, poi, a fare la differenza. Ed è qui che subentra tutta la vulnerabilità di un sistema che ha già mostrato i suoi nervi scoperti. Si Facebook, ad esempio, è bastato sponsorizzare contenuti falsi (ma ben strutturati) per renderli virali. In un colpo solo sono cresciuti il business della disinformazione e la disinformazione stessa.

Chi si nasconde dietro le fake news
Le inchieste sulle fake news più celebri sono quelle che riguardano il famoso Russiagate, ma di fatti dalla portata minore ce ne sono a migliaia. Dietro una fake news, dicevamo, può nascondersi un'organizzazione o un singolo utente. Il primo caso è quello relativo al Russiagate, dove – secondo l'accusa – una regia molto vicina al Cremlino – avrebbe creato contenuti ad hoc per avvantaggiare Donald Trump nella sua corsa alla Casa Bianca, ai danni della rivale democratica Hillary Clinton. Un capitolo scottante, questo, che tira in mezzo un'azienda di San Pietroburgo, la Internet Research Agency, capace di generare circa 3 milioni di tweet pro Trump.

Il ruolo di bot, troll e campagne a pagamento
Quando si è davanti a una campagna di fake news, spesso c'è lo zampino di autentiche organizzazioni. Società che fanno business sull'informazione: investono quattrini, magari dietro commessa. E in questi casi entrano in campo bot e campagne a pagamento. I primi non sono altro che software in grado di replicare un contenuto migliaia di volte, e vengono molto utilizzati su Twitter. Un tweet retwittato migliaia di volte da account bot (cioè falsi), diventa per forza di cose virale. E spesso riesce a entrare nelle tendenze di quel Paese, amplificando ulteriormente la portata di quel messaggio. Su Facebook, invece, le fabbriche di fake news preferiscono affidarsi alle campagne pubblicitarie. Prendiamo come esempio il Russiagate. Questi sono i numeri forniti da Facebook: il periodo temporale incriminato va dal 2015 al 2017. Più o meno due anni e mezzo durante i quali sono stati almeno 500 gli account collegati a una società russa che hanno investito 100mila dollari in pubblicità ingannevole, dedita ad influenzare le elezioni americane. Le circa tremila inserzioni pubblicitarie acquistate hanno intercettato il newsfeed (cioè sono finiti sulla home di Facebook) di almeno dieci milioni di utenti residenti negli Stati Uniti d'America. Il 44 per cento degli annunci è stato visualizzato prima delle elezioni, mentre il 25 per cento, a causa della non approvazione da parte dell'algoritmo di Facebook, non ha mai raggiunto alcun utente.
Infine c'è il ruolo dei troll. Molte inchieste, hanno portato alla luce le azioni di singoli utenti che, dopo aver prodotto una notizia falsa, sono stati capaci di renderla virale, scatenando migliaia di condivisioni. Questi utenti vengono definiti troll, e la loro stella polare e la produzione di news contro l'élite.

Un nuovo algoritmo dal Michigan
Intanto i ricercatori sono pronti a presentare un nuovo algoritmo anti fake news molto più efficace – almeno sulla carta – rispetto a quelli utilizzati fino a oggi. Un software in grado di essere smascherare le notizie false meglio di quanto possa fare un essere umano. Analizzando punteggiatura, vocaboli, struttura grammaticale e complessità dei testi, l'algoritmo riconosce le “spie” linguistiche che caratterizzano le bufale in modo da bloccarle sul nascere, prima che possano generare clic e manipolare l'opinione pubblica. Il sistema potrebbe essere applicato a social media e siti aggregatori di notizie come Google News. I primi test hanno dimostrato che l'algoritmo è applicabile a notizie di qualsiasi argomento e opera più velocemente dell'uomo: riesce infatti a bloccare le bufale appena compaiono sulla Rete, prima ancora che sia possibile verificarle attraverso controlli incrociati con altri testi. Inoltre lo fa con un'accuratezza che arriva fino al 76%, mentre l'occhio umano solitamente si ferma al 70%.

La ricaduta sulle elezioni
Ma quanto incidono le fake news sul risultato di una tornata elettorale? Il vero dilemma di tutta questa storia è proprio questo. Dopo il caso Russiagate, negli Stati Uniti hanno cercato a più riprese di quantificare la ricaduta della disinformazione sulle elezioni. E i risultati sono sempre stati abbastanza chiari: l'impatto reale sul voto – per quanto difficilmente dimostrabile – può essere definito esiguo. Secondo un'inchiesta pubblicata dal New York Times a gennaio 2018, nonostante il clamore scatenato dalle fake news, queste hanno raggiunto solo un sottoinsieme di americani, e la maggior parte dei cittadini raggiunti erano già “partigiani”, ovvero utenti il cui voto era ben definito da tempo. Che sia una tempesta in un bicchier d'acqua?

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