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La digital transformation in azienda: come cambiano ruoli e competenze

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La digital transformation in azienda: come cambiano ruoli e competenze

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Dalla teoria alla pratica: la trasformazione digitale è entrata in azienda. Ma chi se ne deve occupare? Quali profili servono? E poi: è necessario, assieme al cambiamento della cultura aziendale anche la trasformazione delle competenze delle persone che ci lavorano, oppure c’è un problema più profondo e dobbiamo pensare a una nuova leva di millennials con competenze inedite?

«La sfida di questa generazione – sostiene Renzo Noceti, cofondatore e Ceo di Simbiosity – è riuscire a trasformare almeno una parte di chi è dentro il mondo del lavoro. Non possiamo neanche immaginare di dover aspettare un ricambio: bisogna prendere il toro per le corna e aiutare una generazione a cambiare. Per questo a mio avviso la sfida principale è quella del reskilling». Noceti è uno degli esperti con cui abbaimo cercato di capire chi è incaricato della trasformazione digitale in azienda e come si fa ad avviare i processi. La risposta però non è unica: anzi, è multipla. Non c’è una ricetta da seguire, il cambiamento si pianifica sino a un certo punto. Fanno la differenza i mercati, i contesti e le persone con cui si lavora. Ma emergono un paio di punti forti: il digitale, che è la cosa che ha innestato la trasformazione, non è l’obiettivo sul quale l’azienda deve focalizzarsi. Anzi, arriva dopo. Prima le persone. E poi: l’azienda così diventa più razionale, cioè ragiona di più con i dati, che come conseguenza del digitale possiede in abbondanza.

«Non è semplice capire cosa sia una trasformazione digitale – dice Matteo Radice, partner e managing director di Boston Consulting Group – perché ognuno la interpreta un po’ a modo suo. Alcune aziende illuminate definiscono una strategia chiara con punti di arrivo a breve, medio e lungo termine, ci investono risorse e competenze, fanno un disegno organizzativo rivoluzionario, mentre i follower investono poco e fanno tantissimi piccoli progetti pilota che portano a poco. Ma non è l’unico modo».

Centrale nel costruire la trasformazione è il ruolo sia del responsabile che delle singole persone che lavorano in azienda. Per questo, la domanda di cultura digitale è varia. Vediamo prima la ricerca di personale per le aziende: le truppe della trasformazione digitale. «In Italia cresce da parte delle aziende la ricerca di profili con competenze digitali, che possono essere di tipo diverso», dice Mario Mezzanzanica, docente dell’Università Bicocca di Milano e direttore del centro di ricerca Crisp. Nei mesi scorsi ha curato l’edizione 2018 dell’Osservatorio delle competenze digitali (e dalle associazioni Ict italiane) per registrare la pervasività del digitale nella domanda di lavoro: 600mila richieste di lavoro non Ict spalmate su 250 professioni in tutto il territorio nazionale. La domanda cresce dalla rilevazione del 2014: l’industria passa da +11 a +13%, i servizi da +12 a +14%, il commercio resta stabile a +9%.

Le competenze possono essere di vario genere (competenze di base, legate a specifici applicativi settoriali, di programmazione e quelle di comunicazione sui social), mentre la loro pervasività cambia a seconda del singolo profilo lavorativo, con un peso della richiesta online maggiore nel nord del Paese (46% del totale). «Le aziende – dice Mezzanzanica – oltre alle ottimizzazioni ed efficientamenti dei processi, mostrano di voler sempre più conoscere, cioè usare i dati e le informazioni sia provenienti dall’interno che dall’esterno dell’azienda: progettazione di prodotti e servizi, ma anche mercati e clienti. E cercano da qualche anno professionalità capaci di fare queste cose, in una economia sempre più esplicitamente orientata ai dati. La pervasività del digitale nelle professioni indica questo, oltre al più generale tema della trasformazione delle professioni».

Ma chi è il generale che deve guidare il suo esercito aziendale alla trasformazione digitale? «A guidare la trasformazione digitale in azienda – dice Radice – la figura più efficace è il chief transformation officer, il Cto (da non confondere con il capo della tecnologia aziendale, ndr). Una figura senior di origine manageriale, già presente in azienda, fortemente inserita nei processi, legata direttamente al Ceo e al board, capace di rompere qualsiasi eredità del passato con l’autorità di cui è investito. Altrimenti si trasforma in un tecnico che fa aggiornamento di questa o quella tecnologia in una linea di business senza capacità di innescare un vero cambiamento».

Un aspetto importante è il rapporto con la tecnologia, che nei racconti che provengono dalla Silicon Valley sembra avere un ruolo assoluto. «Invece - dice Radice – la tecnologia in quanto tale secondo me è solo una leva, un mezzo, non un fine. È più importante avere una chiara visione di dove sta andando l’azienda e capire come cambiare il modo di lavorare, trasformare il business».

Secondo il Mit Center for Digital Business, la trasformazione digitale è il terzo stadio dopo le fasi caratterizzate dalla nascita delle competenze digitali e l’utilizzo del digitale nei processi esistenti. In questo senso, la trasformazione ha più a che fare con l’abbandono del modello di lavoro e di business precedente che non con il semplice inserimento di dipendenti più giovani e sistemi di intelligenza artificiale che “rischiano di rubare posti di lavoro”.

Il tema dell’intelligenza artificiale, da questo punto di vista è ineludibile. «Le nostre ricerche – dice Marco Morchio, managing director di Accenture Strategy Italy – mostrano che in Italia i manager hanno una forte consapevolezza del ruolo dell’Ai dentro le proprie aziende. Il 70% è convinto che avrà un ruolo strategico e che vada affrontata adesso». Ma va rivista l’idea stessa di intelligenza artificiale, perlomeno nel medio periodo: «La capacità delle macchine è quella di incrementare le potenzialità dell’essere umano anche sul lavoro».

Le conseguenze? Ridefinizione degli skill di base e dei ruoli perché vengono ridefiniti i meccanismi di funzionamento in azienda: «È certamente a rischio il lavoro - dice Morchio – ma inteso come ruolo, non come posto per una persona. Non condivido l’approccio che vede una riduzione del numero delle persone impiegate per aumentare l’efficienza. Può avere senso forse nel breve - anche se non credo -, ma nel lungo periodo sicuramente non serve. La cosa importante è la capacità di stare sul mercato in modo innovativo che permetta la crescita: l’efficienza deve essere trasformata in competenza e competitività, altrimenti il taglio e basta non ha prospettiva».

«Siamo finalmente arrivati – dice Enrico Terenzoni, partner di EY – alla seconda fase della digitalizzazione delle imprese, in cui le aziende più evolute progettano nuovi modi. Tutto questo ha un impatto organizzativo molto rilevante, la parte finora più tralasciata dagli osservatori, perché apparentemente meno innovativa e scintillante. Ma fondamentale: c’è più rapidità, maggiore interfunzionalità e si prendono decisioni sempre più basate sui dati. L’impatto organizzativo in realtà è enorme».

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