Alcuni tra i giornalisti presenti hanno sorriso quando Tim Cook, ceo di Apple, nel presentare durante il super evento a Cupertino il nuovo News+ ha posto grande enfasi sul fatto che si trattasse di “human-curated news”, grazie a una redazione interna di editor. Come se si trattasse di una straordinaria innovazione e non del modo in cui l’informazione viene creata e distribuita da quasi 400 anni. È una sottolineatura sintomatica del momento. Cook voleva dire che la selezione non è decisa da un algoritmo. E che si tratta di “news di qualità” e su un modello antitetico al clickbaiting, cercando di distinguersi da Facebook.
Apple News+, per ora solo negli Stati Uniti e in Canada, aggrega in abbonamento (9,99 dollari al mese) i contenuti di oltre 300 testate partner. Ricavi al 50% tra Apple ed editori. Nelle prime 48 ore ha raggiunto 200mila abbonati, ma il numero dice poco perché il primo mese di prova è gratuito. Pochi giorni dopo il lancio, è stato Mark Zuckerberg ad annunciare che Facebook presto potrebbe pagare una fee agli editori per i contenuti che andranno in una nuova sezione, probabilmente curata da editor, dedicata a contenuti di “alta qualità”.
Zuckerberg, concentrato su una nuova strategia dopo lo scandalo Cambridge Analytica e gli attacchi sulle fake news, ha dato la notizia raccogliendo una sollecitazione di Mathias Döpfner, ceo di Axel Springer, in un video su Facebook. L’editore tedesco fa l’84% dei ricavi dal digitale ed è sceso nel campo dell’informazione liquida con un servizio in partnership: upday, realizzato in esclusiva per Samsung ha redazioni in vari Paesi europei e offre un servizio simile a Apple News, ma gratuito.
Il rapporto tra grandi aziende tecnologiche e giornali non è nuovo, ha vissuto varie fasi, ma ora che il giornalismo è diventato “mobile first”, si sta intensificando. Tanto per dare un’idea, e restando in Italia, secondo Audiweb oggi il 79,4% degli accessi a internet (non solo per le news, per tutto) avviene sul telefono: 35,5 milioni di utenti unici su un totale di 42 milioni. Le aziende editoriali si trovano così a doversi organizzare sempre più come tech company. Il caso del Washington Post è paradigmatico: navigava in cattive acque ed è stato rilevato da Jeff Bezos, patron di Amazon, che lo ha rilanciato traghettando tutta l’azienda sul digitale, assumendo decine di sviluppatori di software e competenze digitali.
Gli editori, allo stesso tempo, si trovano a dover fare i conti con i big del digitale, che hanno il dominio della pubblicità online e la proprietà delle piattaforme. Non è un passaggio fluido. E i rapporti di forza dipendono dalla salute del conto economico. «Siamo a un party o a un funerale?» titolava qualche giorno fa Vanity Fair America un pezzo sul party a New York per Apple News+. Citava le perplessità di alcuni editori, e dunque partner, presenti. Fidarsi o non fidarsi di Apple? La maggioranza dei magazine, in difficoltà finanziaria, ha deciso di salire a bordo. Tra i grandi quotidiani americani invece ci sono solo il Wall Street Journal e il Los Angeles Times. Il New York Times, reduce da una cavalcata di successo negli abbonamenti digitali, arrivati a 3 milioni e mezzo, ha detto di no per non perdere «il controllo dei propri contenuti e non mescolarsi in un frullatore con il giornalismo di chiunque altro» per dirla con le parole del ceo Mark Thompson.
Secondo il NyTimes sarebbe stato invece Murdoch in persona a volere il Wall Street Journal dentro News+, per coronare il suo sogno di crescere su argomenti più generalisti: la testata ha assunto 50 giornalisti dedicati, anche se il sindacato ha contestato la scelta di fare contratti esterni e solo per un anno, il che dà anche l’idea di un esperimento per accrescere la propria audience. Contenuti più specialistici, come CFO Journal e CMO Today, dedicati alla comunità finanziaria, e gli articoli di archivio più vecchi di tre giorni non sono disponibili se non agli abbonati alla propria piattaforma (pagano 39 dollari al mese contro i 9,99 di Apple News+).
La diffusione di aggregatori assomiglia a quello che hanno fatto Spotify per la musica e Netflix per le serie tv. Il boom dello streaming alla musica ha fatto bene: il mercato è tornato a crescere da quattro anni dopo il tracollo iniziato a fine anni Novanta con Napster. Bisogna dire che il mercato è molto diverso da quello editoriale, ha meno attori e cataloghi sostanzialmente identici. Inoltre gli editori che hanno una buona base di abbonati tendono a privilegiare il rapporto diretto con i lettori sulle proprie piattaforme, sia per una questione di gestione dei dati sia per il modello di business: su News+ Apple si tiene il 50%.
Emily Bell, ex direttrice del Guardian, ha scritto sulla Columbia Journalism Review: «Nelle aziende tech ci sono molti executive che vengono dai giornali e hanno a cuore l’informazione, ma sono relegati in dipartimenti marginali: il cuore delle piattaforme sono gli ingegneri del software».
Google, anche in risposta alle critiche dei regolatori europei, ha lanciato il Google News Lab nel 2015 e il Dni come bando di finanziamento per i progetti più innovativi degli editori europei (Il Sole 24 Ore si è aggiudicato 2 grant la scorsa estate ). Ora diventerà internazionale e si chiamerà Gni. È il gigante digitale che ha più anni di esperienza a fianco degli editori. Di recente ha lanciato un fondo per sostenere il giornalismo locale, in grave difficoltà economica. Come partner tecnologico, invece, offre strumenti per l’innovazione digitale: tra i più recenti c’è “subscribe”, per aiutare gli abbonamenti e il login costante durante la navigazione, e “Propensity to subscribe”: un’analisi dei dati di navigazione dell’utente per offerte mirate. Oltre a nuovi strumenti di fact checking, dataset organizzati, e strumenti per estrarre correlazioni all’interno di documenti complessi come base per un’inchiesta giornalistica.
E gli attori non sono finiti. Perché le news ora sono sugli smart speaker, che significa Amazon; nelle auto e nei futuri partner dell’internet delle cose.
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