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Libri per viaggi autunnali

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Libri per viaggi autunnali

Edvard Munch:Melancholy, 1894–96. Oil on canvas. 81 × 100.5 cm. Bergen Kunstmuseum, Bergen
Edvard Munch:Melancholy, 1894–96. Oil on canvas. 81 × 100.5 cm. Bergen Kunstmuseum, Bergen

L'autunno è una stagione che appare gravida di malinconia. Con essa infatti mutano i territori, il tempo segna gli spazi e li sigilla, via via, in nuovi quadri in divenire. Il viaggio, in questo periodo, significa cogitazione interiore mentre si osservano profondamente le città che distruggono la loro precedente faccia per indossare una nuova identità.

Tutti gli elementi dunque sembrano "obliqui": i monumenti, le case, i parchi, gli alberi, le chiese, le vie, i fiumi, il mare. Tutte le cose divergono verso altre cose. Il viaggiatore lo percepisce e ne avverte per sentimenti la nuova e ammaliante estraneità.

Tuttavia, per ogni luogo, è il libro un fedele condiscepolo della riflessione. Ciascuna città merita un volume d'accompagnamento più adatto e alla meta e, di concerto, a questa stagione la quale si incendia grazie ai suoi naturali interventi tanto improbabili.

Ammirare la gotico-americana Baltimora mentre sfuma di forme e diviene rigogliosamente spenta come una candela finita, intanto leggendo: "La rovina della casa degli Usher", di E. A. Poe.

Sostare nei pressi della Senna, a Parigi, invasati delle parole inarrestabili di Céline mentre la città abbigliandosi dell'autunno diventa una specie di rifugio per il pensiero artistico.
Camminare lungo il Ponte Carlo di Praga, al crepuscolo, vigilati dalle statue che paiono angeli sfiniti, e sotto un lampione leggere il racconto "Un digiunatore", di Franz Kafka sorprendentemente impauriti, per il fascino di quella lettura, dall'atmosfera ricreatasi in virtù della stagione. E ancora raggiungere San Pietroburgo dove sotto un cielo metallico si fa risorgere Dostoevskij attraverso la lettura de: "I fratelli Karamazov". Camminando senza meta, confusi, senza capire l'avvento della notte.

A New York, invece, nel porto, ascoltando le navi che mugghiano come balene e gli aceri perdono foglie marrone purpureo. Lì leggere: "Moby Dick", di Herman Melville. E poi invocare davanti alle imbarcazioni le parole di Ismaele, che sono ancora impresse nel fuoco della letteratura e del mare.

Dunque: Parigi, Praga, Baltimora, New York e San Pietroburgo: sei destinazioni e sei corrispondenti scrittori. Da Poe a Melville, fino alla potenza maledettista della prosa di Céline.

Ecco allora alcuni lunghi frammenti, selezionati, delle loro opere, che s'adattano all'autunno dei viaggiatori e che non abbisognano di commenti se non delle letture proprio nei posti dove sono nate.

Parigi: "Viaggio al termine della notte", di Louis Ferdinand Céline
"Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. E' un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. E' dall'altra parte della vita. E' cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. E' Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, un fagiolo anche lui, un compagno. Ci troviamo dunque a Place Clichy. Era dopo pranzo. Vuol parlarmi. Lo ascolto. « Non restiamo fuori! mi dice lui. Torniamo dentro! ». Rientro con lui. Ecco. «'Sta terrazza, attacca lui, va bene per le uova alla coque! Vieni di qua ». Allora, ci accorgiamo anche che non c'era nessuno per le strade, a causa del caldo; niente vetture, nulla. Quando fa molto freddo, lo stesso, non c'è nessuno per le strade; è lui, a quel che ricordo, che mi aveva detto in proposito: «Quelli di Parigi hanno sempre l'aria occupata, ma di fatto, vanno a passeggio da mattino a sera; prova ne è che quando non va bene per passeggiare, troppo freddo o troppo caldo, non li si vede più; son tutti dentro a prendersi il caffè con la crema e boccali di birra. E così! Il secolo della velocità! dicono loro." (Corbaccio-collana TEADUE)

Praga: "Un digiunatore",di Franz Kafka
[…]Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c'erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza erano di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevano il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l'intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva." (Racconti-Mondadori; Meridiano.Traduzione di Ervino Pocar)

Baltimora: "La rovina della casa degli Usher", di E. A. Poe
"Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d'autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo traverso a una campagna singolarmente lugubre fino a che mi trovai, mentre già cadeva l'ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l'ebbi guardata una sensazione d'insopportabile tristezza mi prese l'anima. Insopportabile, dico, già che non le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore. Guardavo la scena che mi stava davanti: e lo spettacolo della casa e del paesaggio all'intorno, le fredde mura, le finestre come vuote orbite, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo […]Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo." (Racconti-Mondadori)

New York: "Moby Dick",di Herman Melville
"Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E' un modo che io ho di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l'altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l'oceano. Eccovi dunque la città insulare dei Manhattanesi circondata da banchine, come le isole indiane da scogliere di corallo: il commercio la cinge con la sua risacca. A destra e a sinistra le vie vi conducono al mare." (Adelphi-Traduzione di Cesare Pavese)

San Pietroburgo: "I fratelli Karamazov",di Fedor Dostoevskij
"Qualcuno fra i miei lettori potrebbe pensare che il mio giovanotto avesse una natura cagionevole, esaltata, scarsamente sviluppata e fosse un pallido sognatore, dal fisico consunto e emaciato. Tutto il contrario: Alëša a quel tempo era un prestante adolescente di diciannove anni, colorito e con lo sguardo limpido, uno che sprizzava salute da tutti i pori. Era persino molto bello, snello, abbastanza alto, con i capelli biondo-scuro, un ovale regolare, anche se un tantino lungo, splendidi occhi grigio-scuro, distanti fra di loro; era molto riflessivo e, in apparenza, molto tranquillo. Mi diranno forse che le guance colorite non escludono né il fanatismo né il misticismo, ma a me sembra che Alëša fosse persino più realista di molti altri. Certo, quando era al monastero egli credeva fermamente nei miracoli ma, secondo me, i miracoli non metteranno mai a disagio un realista. Non sono i miracoli a fare propendere il realista verso la fede. Un vero realista, se non è credente, troverà sempre in se stesso la forza e la capacità di non credere neanche nel miracolo, ma se il miracolo diventasse un fatto innegabile lì davanti ai suoi occhi, egli sarebbe disposto a non credere ai propri sensi piuttosto che ammettere il fatto. E se lo ammettesse, lo ammetterebbe come un fatto naturale fino a quel momento a lui ignoto. In un realista non è la fede a nascere dal miracolo, ma è il miracolo a nascere dalla fede."(Einaudi-ET Biblioteca)

9 ottobre 2015

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